Il Tamburino Sardo


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terra di bossi

Rubrica bassa cucina

La terra di Bossi
(Giampiero Muroni)


Se la realtà è razionale, come diceva qualcuno, allora ha un senso anche la boutade agostana di Bossi – una delle tante, forse la meno commentata dai giornali nell’abbondanza di occasioni, ma anche la più densa.

“Diamo le terre ai disoccupati”, così ha rintronato il leone, e pareva pensasse da padre più che da ministro, perché un lavoro che non sia una donazione demaniale a suo figlio Renzo è difficile che glielo offrano – quando avrà chiuso la sua faticosa esperienza all’Osservatorio sull’Expo, beninteso.

E invece no, a leggere con più attenzione le sue parole si coglie sempre il filo che collega le mattane di Bossi al ventre del suo elettorato, che non lo coglie mai oltre il confine della sparata fine a se stessa – quello sport in cui eccellono altri della sua risma e tanti suoi detrattori.

A pensare alla faccia di Tremonti quando gli avrà argomentato l’idea c’è materia per Guzzanti (figlio), ma non è sul terreno della ragione che va pesato l’uomo. E neanche su quello del realismo: di quali terre va parlando che siano appetibili ai bambocci lumbard? Quali sono rimaste libere dalla voracità padana delle migliaia di industrialotti dell’indotto, quelli tutti “due cuori e un capannone”, che c’hanno speso la vita a fare i soldi senza la distrazione di un libro e c’hanno arricchito la famiglia nel mito della villetta e del riscatto dalla miseria dei padri? Non ci sono proprio quelle orde di braccianti bianchi che possano rinverdire i tempi della De Marzi – Cipolla, quando una generazione di baionette smobilitate trovò nell’assennatezza democristiana la via di un’integrazione nella nuova Italia che gli raccontavano democratica.

Allora sì che le terre c’erano e c’era la voglia di farne la propria speranza, non oggi. Oggi parlare di agricoltura vuol dire arare un campo minato dalla pletora di norme della burocrazia europea e avere di fronte lo spettro incombente di una produzione africana (delle nuove colonie cinesi) che in due decenni sommergerà l’Occidente di carni e frutta low cost. Non c’è spazio per un’autarchia alimentare europea, figuratevi italiana.
Ma Bossi non parla alla testa della gente, manco dei suoi fedeli: lui punta alla pancia. E la pancia è il dominio dell’irrazionale e dei sogni.

Parlare di “terre al popolo” per lui vuol dire solleticare l’intimo desiderio del ritorno ad un’età dell’oro, quando la vita era semplice e scandita da regole e valori riconoscibili. È la negazione della complessità, della modernità che morde coi suoi dubbi e le sue angosce il quotidiano di chi non vorrebbe altro che fare ciò che sa, senza bisogno di sapere d’altro. Il popolo di Bossi vorrebbe un’Italia più semplice, come quella che si era immaginata crescendo e guardando i propri genitori farsi largo coi gomiti, a fatica, e il piede basso sempre quello dietro. Ciò che è venuto dopo, dalle domande della scienza a quelle dell’integrazione razziale, dalla crescita della burocrazia dell’welfare alla globalizzazione delle opportunità, tutto è servito a rendere più insicura una vita morale che si rimpiange con la rabbia di chi non sa che non ritornerà.

Di fronte alla difficoltà del presente il richiamo alla terra assume una valenza consolatoria: esiste una speranza, dietro le spalle, e accarezzarla può farla sembrare reale.

Non importa che non ci sia terra vera da coltivare e tanto meno aspiranti contadini ad invocarla: la terra di cui parla Bossi è quella dei Padri, il luogo cui si ritorna per ritrovare se stessi, le proprie radici, in cui riconoscersi – appunto – come popolo. La Padania era stata la Sion identitaria vagheggiata: ora si ha bisogno di toccarla e sfarinarla in mano come in tutte le liturgie messianiche.

Terra come carne, dopo l’ampolla di sangue del Po: Bossi tracima nella religiosità pagana l’inquietudine selvatica della sua plebe confusa.

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