Il Tamburino Sardo


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Ricordi fascisti

Rubrica Anticamera

Ricordi fascisti
(Bruno Bagedda)

Nel giugno del 1940 frequento "LO STUDIUM URBIS" di Roma; primo anno di Giurisprudenza. Scoppia la guerra, e tutti vogliamo partire volontari, ma col "18" senza essere interrogati! Il professor Masci (Economia corporativa) "non ci sta", e provvediamo, lo confesso, con calci nel sedere!

I termini per frequentare il corso Allievi Ufficiali sono scaduti, ma ce la faccio, mettendo in moto un gerarca fascista, padre di un compagno di scuola. Questo galantuomo, per sua sventura, divenne Capo della polizia, ed il 25 luglio 1943, stava nella camera a fianco del Gran Consiglio del Fascismo. Aveva già avvertito Mussolini dell'ordine del giorno "Grandi" ed intendeva procedere all'arresto dei congiurati.
Mussolini aveva replicato ingiungendogli di non far nulla giacché "dovevano assumersi le loro responsabilità davanti al Paese".
II Prefetto Renzo Chierici (questo il nome che pochissimi conoscono) verrà assassinato pochi mesi dopo la caduta del Fascismo. Ufficiale degli Alpini e decorato della Grande Guerra, fu per oltre 20 anni prefetto, comandante della milizia forestale e, come si è detto, capo della polizia, con ingenti fondi disponibili "ad libitum".
Lasciò in eredità ai figli un appartamentino di due camere a Largo Porta Cavalleggeri. Alla fine del 1943 la figlia Mimma, ventenne, ebbe a dirmi: "Se non mi avessi portato queste valigie di pane e formaggio di pastori sardi, domani mi sarei prostituita per la fame!". È, questo, un modesto contributo al "luminoso nulla" che ci opprime dal 1943: "I gerarchi Fascisti erano tutti ladri!"

Cercherò, ora, di smentire un'altra favoletta che mi perseguita dalla data suddetta; o meglio, dal precedente giugno 1940.
Ho già detto, e ripeto, che moltissimi giovani, soprattutto universitari, allo scoppio della guerra chiesero di partire volontari, ritenendo, giustamente, che fossero in ballo i destini della Patria e non del Fascismo.
A parte il "Diciotto" senza esame, ci riuscimmo solo i raccomandati, mentre "gli amici dei nostri nemici" boicottarono questa spinta rivoluzionaria.
Il giorno di Pasqua del 1941, invadiamo la lugoslavia, partendo da Pola.
Comando un reparto motorizzato, ma sono provvisto solo di carte geografiche (non topografiche) per cui sbaglio percorso ed occupo un grosso centro: Knin. Dopo circa mezzora arriva un reparto tedesco ed il Comandante mi fa notare l'errore commesso.
Chiedo scusa e vado via, ma la notizia dell'occupazione viene data dalla stampa.
Ci riposiamo dalle non eccessive fatiche di questo fronte (Tito e i partigiani arriveranno dopo) al bel sole e con le graziose ragazze di Makarsca.
Rientrati a Roma dopo qualche mese, ci viene comunicato che la nostra Divisione, la"Torino", è in partenza per la Russia.

Proseguo, qui, il discorso sulla guerra "non sentita".
Tutti gli ufficiali chiesero di partire per il nuovo fronte, e non si contarono i pianti e la disperazione di chi doveva essere escluso per la giovane età (ero il più giovane del Reggimento) o per altre ragioni.
Riuscii ad imboccare la strada giusta ricorrendo alla solita raccomandazione e supplicando il tenente Paolo Barile, Aiutante maggiore de! Comandante del Reggimento.
È lo stesso Barile che divenne, nel dopoguerra, eminente cattedratico e Ministro della Repubblica.
Fu l'unico a non partire per la Russia, ed io ritenevo che la ragione stesse nel fatto che aveva vinto un concorso per la Magistratura, mentre la vedova, recentemente, ha chiarito che non partì per l'urgente ricovero all'ospedale di Trieste.
Resta comunque incomprensibile il perché mentre non partivano per il fronte i volontari ventenni, venissero in Russia - ad esempio - Filippo Tommaso Marinetti, fondatore del Futurismo, e l'ultracinquantenne Anton Germano Rossi, redattore del "Marc'Aurelio", e compilatore di note rubriche come "Parco qui porco là". Questi divenne Comandante del mio caposaldo Malo Orlowka, mentre i 47 sottozero non gli impedirono di tenerci di buon umore: quando cominciarono a piovere i razzi della Katiuscia russa mi diceva: "caro Bruno, quelli sono matti!, ma non lo sanno che potrebbero farci male!..."

Arrivati al luglio del 1942, vengo mandato in Patria con licenza "per esami" di quindici giorni.
All'università di Roma, con altri reduci da diversi fronti (molti mutilati, tutti malandati) mettemmo in atto un'iniziativa che ebbe successo: bastava esibire il libretto universitario e, per ogni esame, si otteneva il "diciotto" senza alcuna interrogazione. In cinque giorni sostengo una ventina di esami, ma poi sorge una grave difficoltà: alla porta di un Professore mi dicono: "Qui c'è Vassalli: niente diciotto se non si conoscono almeno i principi del Diritto civile". Perdo la pazienza, apro la porta con un calcio, ed entro. Il docente, anziano, mi viene incontro, guardandomi e vedendo le "patacche" che esibisco sul petto, mi dice: "E tu quanti anni hai e da dove vieni?" Ho vent'anni, ma evidentemente ne dimostro di meno, giacché lo stesso Mussolini, mentre partivamo verso la Russia si fermò davanti a me e chiese al Comandante del Reggimento: "Quanti anni ha questo ragazzo?" Per l'emozione, non riuscii a rispondere e mi feci pipì addosso, suscitando la riprovazione del Colonnello al quale, successivamente, riferii l'accaduto suscitando le sue ire.
Il professor Vassalli, dopo circa un'ora di "interrogatorio" (sulle condizioni economiche e sociali della Russia) si avvicinò, mi dette un buffetto sulla guancia e mi disse: "Tanti auguri figliolo; ti basta trenta o vuoi anche la lode?" Risposi: " Professore, mi sta rovinando la media; ho tutti diciotto!"

Laurea, sessione invernale del 1943. Un professore mi dice che se voglio "100" debbo almeno studiare una paginetta dei nostri sunti "Cetim".
Replico che, per coerenza con gli esami bellici, mi accontento del "66"; ovviamente senza interrogazioni. "Mirabile dictu", vengo accontentato!

Frattanto, il 25 Luglio 1943 cade il Fascismo ed è facile capire che l'armistizio è vicino.
All'inizio dell'anno, pare per ordine del Capo del Governo, si dispone che tutti i militari sardi rientrino nell'isola, in previsione dello sbarco anglo americano.
Errore grave, visti i risultati dell'analoga disposizione adottata dalla Sicilia. La resa di Pantelleria "docet".
Dopo aver lasciato la Sardegna, con un amico pilota militare di idrovolanti, mi avevano rimandato nell'isola, e il 25 di Luglio sono ospite, a Orosei, di un reparto di Alpini tedeschi.
Mi sento morire dall'umiliazione e dalla vergogna.
Nello stesso centro e nei dintorni, fino al mare, avevo provveduto ad impiantare un eccezionale campo minato: 5000 mine "T" anticarro (5 chili di tritolo fuso e compresso) e altrettante mine antiuomo, tuttodì fabbricazione tedesca, che utilizzo con disinvoltura, dopo il corso effettuato in Russia, sul Nipro, con la favolosa Divisione Wiking, delle SS militari nordiche.
Alla fine di luglio dello stesso anno vado a trovare un amico, Tenente Pischedda, della Divisione pracadutisti "Nembo" nel Sud Sardegna, verso Villacidro.
Vengo presentato al Comandante del Battaglione Mario Rizzati, al quale domando quale sarà l'atteggiamento suo e del reparto nel caso di armistizio.
Mi risponde che sarebbe una vergogna che peserà per secoli sull'Italia. D'accordo con tutto il Battaglione, quel giorno cesseranno di essere italiani, per diventare tedeschi proseguendo con loro la guerra iniziata nel 1940.
Replico che la penso allo stesso modo e domando, esplicitamente, che passino a prendere me e il mio reparto a Orosei.
E poiché, certamente, le truppe tedesche si dirigeranno verso il Nord Sardegna, per la Corsica e la penisola, lascerò un mio guastatore al bivio esistente presso il campo sportivo di Nuoro, per evitare che sbaglino strada e si dimentichino di me.
Ricevo conferma anche da Pischedda che, essendo sardo, conosce bene i luoghi.
Tutto questo programma salterà per la morte del Capitano Bechi Luserna, ucciso a Macomer, per un equivoco, dal Capitano napoletano Alvino.
Quasi tutti i componenti del Battaglione Rizzati, compreso il Comandante, sono caduti combattendo ad Anzio e Nettuno, nella difesa di Roma.
Posso dire, quindi, che l'episodio Bechi Luserna, impedendo la mia partenza con la "Nembo" mi ha salvato la vita.
Sembra opportuno chiarire che Bechi, già valoroso combattente ad "El Alamein", era il padre della prima moglie di Umberto Agnelli e quindi, nonno dello sventurato giovane Agnelli, morto di cancro qualche anno fa.

Ma il mio chiodo fisso era quello di passare dalla parte dei soldati di Mussolini e per questo, avendo i titoli di "guastatore e cacciatore di carri", chiesi di essere arruolato nella 90A Compagnia guastatori del gruppo di combattimento "Cremona" che si apprestava a raggiungere le truppe "alleate" nell'Italia del Sud.

A questo punto debbo ritornare sul "luminoso nulla" della "guerra non sentita"; alla quale, ovviamente, dovrebbe corrispondere, come "guerra sentita", quella combattuta dalle truppe badogliane.
Orbene, indico tre dati di fatto, difficilmente smentibili:
1°. Quando chiesi di partire, all'ufficio reclutamento di Sassari trovai solo altri due volontari che, per quanto mi dissero, avevano il solo scopo di raggiungere le famiglie residenti nella penisola;
2°. L'arruolamento obbligatorio dei militari nel Regno del Sud provocò reazioni vivissime contro la cosiddetta "guerra di liberazione", reazioni che giunsero fino all'omicidio, come a Cagliari, in Calabria e in Sicilia;
3°. Nel gruppo di combattimento "Cremona" (proveniente dalla Corsica) c'era un certo Capitano Giorgi che, come me e molti altri, non nascondeva le sue simpatie fasciste. Senonché, nel corso del conflitto, venni a sapere che era stato decorato della medaglia d'oro e della massima ricompensa "alleata".

Gli scrissi per complimentarmi, ma pochi giorni dopo mi telefonò per dirmi che "non voleva diventare un eroe, ma solo morire".
Né basta, giacché faccio un'affermazione facilmente controllabile.
Nessuno, della classe democratica dirigente succeduta al Fascismo in Sardegna (idest: parlamentari, consiglieri regionali e provinciali, sindaci dei centri più popolati) ha fatto la guerra "di liberazione", mentre - come risulta dal foglio matricolare - l'ha fatta il fascista (dal giorno dopo la caduta del Fascismo) Bruno Bagedda. Il quale però, quando gli venne comunicata la concessione di decorazioni, ribadì all'Autorità, per scritto, le ragioni e i fini di quell'arruolamento volontario.

Ho riferito sulla singolarità dei miei esami universitari e sulla laurea, e adesso passo all'attività professionale.
Alla fine del 1944, dopo un tempestoso colloquio con il Comandante della Divisione
"Cremona" gen. Zanussi, per punizione venni trasferito in Sicilia e - scortato da due
ufficiali - imbarcato a Cagliari, sull'incrociatore "Montecuccoli". Riuscii, per altro, a sbarcare, con un espediente, facendomi ricoverare d'urgenza all'ospedale militare di Sassari, dove un'efficiente organizzazione neofascista, pose fine alle mie movimentate avventure militari, iniziate nel 1940.
Ma non posso chiudere questo capitolo senza un breve riferimento al ridetto colloquio col Gen. Zanussi.
Questo fu il suo esordio in presenza del mio Comandante Ten. Lazzarato: "È vergognoso che nel reparto di punta della mia Divisione ci sia un ufficiale fascista , che fa propaganda fascista tra la truppa. Tu sei un ragazzo, ma so che hai combattuto valorosamente in Balcania e in Russia con la proposta di diverse decorazioni al valore militare. Mi dispiace, ma la materia è di competenza del Codice Militare Penale".Risposi ribadendo ragioni e fini del mio arruolamento e confermando, altresì, la mia fede Fascista.
All'uscita, Lazzarato mi disse: "Caro Bruno, se ti sposerai e avrai dei figli, dovranno essere orgogliosi del tuo comportamento odierno" e mi abbracciò commosso.

Dopo il congedo mi trasferisco nel mio paese, Bitti, e studio 15-17 ore al giorno ("con ardore matto e disperatissimo") per porre rimedio ai "18" degli esami militari e al "66" della laurea.
Sostengo gli esami da procuratore nel 1966 a Roma (dove intendo esercitare la professione) e i voti sono questi: tutti 9 ed un solo 8; tra i primissimi nella graduatoria dei candidati. Bel risultato del massacrante lavoro svolto, per circa un anno e mezzo, nel mio paese, studiando tutta la materia universitaria.
Ecco, dunque, il mio curriculum legale:
1944 pratica forense; 1946: procuratore; 1947: avvocato; 1950: Albo speciale della Cassazione.
Dal 1946 al 1966 sono stato Consigliere segretario dell'Ordine di Nuora (di fatto., Presidente), pur avendo mantenuto lo studio a Roma dove, per qualche tempo, ho frequentato gli studi legali di due sardi: il già famoso penalista Giuseppe Sotgiu e l'affermato civilista Bardanzellu.
Dirò subito che, professionalmente, ho avuto fortuna, nonostante i guai giudiziari. Proprio come in guerra: per la Russia partimmo in 15.000 e non tornammo che in 300; nella vita privata, ho subito 3 operazioni per cancro e sono ancora vivo; nella politica, sono una specie di Onorevole, pensionato per 4 legislature. '
Di più, la frequenza della Cassazione (della prima penale, in particolare) mi ha consentito di "rivoluzionare" la professione, in Sardegna.
I colleghi anziani (pur "fattisti" molto bravi) raramente andavano in Cassazione o, addirittura, non erano iscritti all'Albo. Le loro arringhe duravano ore. e talvolta giorni, mentre personalmente, fin dal primo grado, toccavo le questioni giuridiche, da sviluppare successivamente, e le mie discussioni si concludevano al massimo in trenta-quaranta minuti.
Negli anni cinquanta, davanti alle Assise di Cagliari, per due rapine, con numerosi carabinieri uccisi, i colleghi parlarono per più giorni, mentre io feci l'arringa più lunga della mia attività professionale, concludendo in un'ora.
E fui il solo, in Appello, ad ottenere che venisse ridotto a 30 anni la condanna del mio cliente Luciano Murru, uno dei sedici ergastoli comminati agli imputati, tra i quali diversi ex partigiani.
Quel processo fu, per me, un dramma durato vent’anni: difendevo un mio ex soldato, certamente innocente. L'ho .seguito per tutte le carceri d'Italia fino alla liberazione. Per spese, diritti e onorari: un prosciutto!

Ho maturato, inoltre, un'esperienza internazionale che non esiterei (salvo errore) a definire
unica, in Italia.
Ho fatto processi oltreché in tutte le regioni nostre, in Francia, Svizzera, Germania (molti) e sono anche finito, per diverse volte, in Australia (a Sidney).
Il veicolo di questa eccezionale esperienza sono stati gli emigrati sardi, che mi incaricavano di tutelare i loro interessi.
Preciso di aver iniziato questa attività negli anni sessanta (quando, cioè, non era consentito - nemmeno nella Comunità - quanto oggi è permesso) ricorrendo ad un espediente. Comparivo, unitamente ad un legale del luogo, con procura dei genitori dell'imputato, e i Giudici, formalmente, mi sentivano come teste sulla personalità del giudicando, consentendomi, sostanzialmente, di difenderlo.

Ritengo opportuno citare, brevemente, tre esempi, anche per sottolineare le profonde differenze esistenti tra il nostro e l'altrui ordinamento della giustizia penale.
Attorno al 1963 vengono in studio due coniugi di un paese vicino. La stessa mattina i Carabinieri li hanno avvertiti che un loro figlio ventenne, emigrato in Germania, è stato arrestato per omicidio duplice. Tutto il paese vuole economicamente aiutarli, mi incaricano di andare a difenderlo.
Fin dalla guerra ho molte amicizie in Germania, e non ho difficoltà con la lingua. Accetto, felice della nuovissima esperienza, e dopo due giorni sono nella celebre città, Norimberga, a conferire col Pubblico Ministero (per loro: Avvocato dello Stato).
In pochi minuti mi ricostruisce il fatto reato e arriva alla conclusione.
Un giovane italiano è stato aggredito da due pregiudicati tedeschi, solo per avere reagito, con una spinta, al terzo tentativo di versargli sul capo un boccale di birra (per i tedeschi colti il latino "prosit"; per i due energumeni: "prosch").
Tenevano sotto di loro il piccolo italiano, alto uno e sessanta, lo tempestavano di pugni e calci finché reagì con un coltello spaccando il cuore ad uno e colpendo l'altro al basso ventre.
Mi mostra l'arma chiedendomi se è un prodotto italiano: c'è scritto "Pattada" (il paese dove
si producono i migliori coltelli della Sardegna) ma la mia mortificante risposta è,"'non mi pare".
Conclusione del Pubblico Ministero: ha sentito i testi presenti ed è tutto chiaro: legittima difesa, (codice penale tedesco, paragrafo 32-not Wer). Se attendo due giorni, potrò riportare il cliente in Italia.

Il secondo processo che riferisco è stato celebrato a Ildecheim (dopo Norimberga italianizzo anche il nome di questa città).
Un giovane sardo (in quel periodo moltissimi sono gli emigrati in Germania) corre lungo l'argine di un fiume, inseguito da un gruppo di residenti.
Il primo che lo raggiunge lo afferra, ma viene ucciso con un colpo di coltello di "Pattada".
In precedenza, in un bar, aveva infastidito una graziosa ragazza locale e, successivamente, vibrato un pesante calcio tra le gambe a un giovane intervenuto in difesa della compaesana.
Di là era scappato, inseguito dai tedeschi.
La vicenda giudiziaria era iniziata bene giacché, a mia domanda, il Presidente del Collegio aveva riferito di aver perso il braccio sinistro, nel settembre del 1941, combattendo sul fronte russo a Nipropetroski, con i pionieri dell'Armata tedesca.
Mi stringe cordialmente la mano, e sorride compiaciuto, quando riferisco, che in quella città avevo combattuto aggregato alla Divisione SS militare Wiking, composta da volontari del Nord Europa.
E il Generale Comandante Felix Steiner, mi aveva informalmente consegnato una croce ed il nastrino che gli esibisco, contenente il motto dei volontari in Russia: "Ragazzo, profitta della guerra; la pace sarà terribile! (Kinder, geniess den krieg; der Friede wird furchterlich!).
Il dibattimento andava avanti senza scosse e mi attendevo i 15 -17 anni di reclusione per omicidio volontario, quando uno dal pubblico chiese di essere interrogato. Disse che aveva assistito all'omicidio e che era rientrato in Patria dall'estero per testimoniare.
Il Presidente, data la rilevanza delle dichiarazioni, lo fece giurare. Disse che il compatriota ucciso capeggiava gli inseguitori gridando:" Pigliamo l'italiano, uccidiamolo e gettiamolo nel fiume!".
Assoluzione per legittima difesa in eccesso (paragrafo 33 C. P.tedesco – Ueberschreitung der Notwer).
Una nota comica: durante il dibattimento, l'imputato, un debole di spirito che mi sedeva accanto, sussurrò in sardo: "Avevo anche la pistola, ma non lo dica al Presidente!".

Ho citato questi episodi, oltre che per sottolineare la sollecitudine e la concretezza della giustizia tedesca, anche per l'alto valore sociale che ha, in quel Paese, la testimonianza. Da noi, particolarmente nella Barbagia di Sardegna, è inconcepibile rendere dichiarazioni
di accusa contro un compaesano e in favore di uno "straniero" (e tali sono considerati tutti i non concittadini).
Passo ora alla Corte dei Diritti dell'Uomo, con sede a Parigi, prima del trasferimento a Strasburgo.
Intorno al 1966 ricevetti una telefonata dalla Segreteria del Ministro degli Esteri, al tempo Prof. Segni.
Lo stesso mi disse, anche, di essere a conoscenza che avevo rappresentato la Parte civile contro alcuni altoatesini di Bolzano, che avevano assassinato una guardia di finanza sardo.
Mi disse anche, d'aver saputo che non solo non avevo chiesto onorari, ma neppure il rimborso delle rilevanti spese vive sostenute per le lunghe trasferte a Boizano, Trento e Roma, nei tre gradi del giudizio.
Mi informò che l'Austria (che per il trattato di pace, "proteggeva" la popolazione dell'Alto Adige sud Tirolo) aveva prodotto ricorso alla Corte di Parigi, sostenendo che nelle procedure italiane per il citato omicidio, erano stati violati i Principi del giusto processo.
Il Ministro Segni mi disse che avrebbe gradito il mio intervento in favore dell'Italia davanti alla Corte Internazionale.
In quel periodo avevo molti impegni, ma ci tenevo a fare questa esperienza, e dopo alcuni
giorni comunicai al Capo del Contenzioso della Farnesina, la mia accettazione, pur dopo aver saputo che la permanenza a Parigi si sarebbe protratta per circa un mese. Vincemmo la causa, anche perché le motivazioni, prodotte dall'Austria, rasentavano il ridicolo.
Si diceva - ad esempio - essere stato violato il principio della presunzione di innocenza perché "l'avvocato Bagedda, nella sua arringa, aveva chiamato gli imputati assassini".
Ad aggravare la futilità del rilievo, dirò che i giovani austriacanti erano confessi. Alla fine di questo processo, tutti gli intervenuti venimmo invitati a colazione dall'Ambasciatore d'Italia a Parigi, Manlio Brosio.
E qui accadde un episodio che vale la pena di raccontare.
La gran parte degli ospiti, ovviamente, aveva una forte caratura antifascista, ma nel corso delle discussioni non mancai di fare intendere le mie opinioni politiche.
Tra gli intervenuti ricordo il comunista Reale, già Ambasciatore a Varsavia, e l'On. Philipson, deputato prima del Fascismo.
A un certo punto l'antifascista avv. Brosio disse: "Ed ora proporrò un quesito a Reale e Philipson e sono certo, caro Bagedda, che il risultato le farà piacere. Per me Mussolini non solo aveva eccezionale capacità politica, ma era anche personalmente onesto".
I due interpellati confermarono, ed io potei abbracciare, commosso, Manlio Brosio.
Dimenticavo di dire che nel viaggio aereo Roma-Parigi ebbi modo di chiedere al Prof. Giuliano Vassalli (che avrebbe diretto la difesa dell'Italia) se avesse qualche rapporto con l'omonimo mio Docente di diritto civile, allo "Studium urbis".
Rispose che era suo figlio e si commosse al racconto del mio singolare esame del 1942.

Veniamo, ora, alla lunghissima attività professionale, e alle conseguenti disavventure giudiziarie.
Negli anni sessanta, la Barbagia di Sardegna (neppure i Romani riuscirono a sottomettere queste fiere popolazioni) era ricaduta in una situazione insostenibile: rapine, omicidi e sequestri di persona (anche 4 contemporaneamente!) erano pane quotidiano e, come suole accadere, nel mirino delle forze dell'ordine, entravano anche i difensori dei più noti latitanti. Le fotografie di questi e la taglia, apparivano in tutti i muri della Sardegna, e la maggioranza erano miei clienti.
Tra questi il più famoso era Graziano Mesina, che raggiunse una notorietà internazionale, tanto che le riviste più diffuse nel mondo "Time" e "Life", mandarono giornalisti da me, per ottenere un'intervista.
Replicai che tra i miei doveri di difensore non c'era quello di procurare interviste; dovevano rivolgersi ai familiari e, se richiesto, avrei dato il mio parere.
Vengono inviati, dalla Sicilia, due alti funzionari già impegnati nella lotta alla mafia, che vennero in studio (avevo in atto tre registratori) e mi comunicarono d'avere le spalle ben protette, e di essere stati autorizzati a fare tutto quanto ritenevano opportuno.
Non ci volle molto per capire che si avvicinavano tempi duri per i latitanti, i familiari, e i loro difensori.
In questo eccezionale periodo frequentava la Sardegna Gian Giacomo Feltrinelli, ed ebbi notizia che stava tentando di avvicinare Mesina, con l'offerta di armi e denaro.
Era notorio che disponeva delle une e dell'altro, per cui col coraggio fisico e la fantasia di Mesina era facile prevedere che la Sardegna sarebbe diventata terra di sovversione. Date anche le mie opinioni politiche, ero molto preoccupato e questo stato d'animo venne aggravato dall'intervento di un alto Magistrato che mi invitò ad intervenire con urgenza, facendo incontrare il latitante, se possibile, con un appartenente ai Servizi segreti, persona - mi disse - di estrema serietà e capacità.
Mi sembrò estremamente difficile organizzare quell'incontro con uno "sbirro", ma il mio costante impegno e l'aiuto dei fratelli di Mesina, mi consentirono di raggiungere lo scopo. Fu cosi che una notte (dopo attenta perquisizione) caricai il "dottore" nel bagagliaio della .. mia "Mercedes" e ed iniziammo un peregrinare notturno, in tutta la Sardegna, in attesa dei segnali convenuti. Finalmente, dopo diverse ore, infilai una strada bianca che, tuttavia,non era il percorso giusto, mentre, in un trattura vicino vidi, nel fascio di luce dei fari, Pietro Mesina.
Presentai il "dottore" che venne attentamente, nuovamente, perquisito, mentre - a richiesta - gli fu consentito di trattenere un pacchetto di sigarette Marlboro. Lì vicino trovammo, con un maxi cappotto di pelle, e disarmato (come accadeva ad ogni nostro incontro) Graziano Mesina.
Secondo accordi venne registrata la conversazione (meno l'argomento Feltrinelli) e si stabilirono i termini della costituzione, con la consegna delle armi (che avevo già fotografato) e il versamento di un certo numerario.
Finito il colloquio, mentre rientravamo col "dottore", venni pregato di fermarmi e di accendere le luci interne. Mi venne consegnato il pacchetto di Marlboro, con l'invito ad esaminarlo bene. Era una pistola ad un colpo! Infilai le mani nel giubbotto ed estrassi una "trentotto magnum" ed una "ventidue", aggiungendo: "Caro dottore, Lei poteva ammazzare Mesina, ma io l'avrei ridotta ad un colabrodo!". Finì con una risata.

Frattanto erano maturati i tempi dei miei guai forse perché non detti retta ai miei carissimi e vecchi amici Titta e Nicola Madia, i quali insistevano nel dirmi: "Se ti accusano di avere rubato la Torre di Pisa, datti alla latitanza!".
Vennero a prendermi, ma percorsi un'uscita riservata incamminandomi verso la prossima casa di un esponente politico avversario dove, mai, si poteva supporre che io mi nascondessi.
Sennonché, ad un certo punto, in un istante, decisi di tornare a casa e consegnarmi. C'è un giovane Tenente dei Carabinieri, e un sottufficiale della Polizia che conoscevo, e mentre viaggiavamo verso Cagliari mi confermarono che qualche giorno prima, alle elezioni politiche, avevano ancora votato per me.
Mi augurarono l'elezione per porre fine alla mia poco piacevole condizione.
Il primo morrà, suicida, qualche giorno dopo, mentre il secondo cesserà di vivere per cancro, dopo qualche mese.
Tutta la stampa nazionale parlò del mio arresto (in parte riferendo i miei alti incarichi ne! M.S.I.) mentre tutti sottolinearono la frase detta ai giornalisti, nella Questura di Cagliari: "Queste manette mi onorano, perché io sono un galantuomo".
Prima dell'assoluzione con formula ampia (senza ottenere neppure una lira di risarcimento per i rilevantissimi dammi patrimoniali e morali) dovrà passare circa un anno trascorso in una lurida cella, in compagnia di topi di fogna, e con la finestra provvista di sbarre, bocca di lupo e rete metallica con maglie di un centimetro. Mi dirà il Comandante delle guardie (che ben conoscevo): "Messa ieri apposta per Lei"!
Mi consentono soltanto cinque minuti d'aria, che attendo, con ansia, tutti giorni, per ventitré ore e cinquantacinque minuti.

Ma anche nella tragedia non mancarono gli spunti di ilarità, come quando, dopo qualche giorno, venne a trovarmi il cappellano del carcere, un frate: "Coraggio, onorevole, la pena di morte è stata abolita!"
Dopo circa 11 mesi vengo messo in compagnia, in un vasto camerone, con due simpatici miei clienti, ambo col cognome straniero. Con i quali, ovviamente, vado d'accordo e passiamo piacevolmente il tempo, come fossimo in un albergo a 4 stelle, a paragone della cella con topi di fogna.

In questo periodo accaddero due episodi che vale la pena di riferire. Il carcere di Cagliari, "Buoncammino", era considerato uno dei peggiori d'Italia, ma particolarmente in quel periodo, per l'eccessivo affollamento, erano state instaurate restrizioni insopportabili. Scoppiò la rivolta e i detenuti iniziarono a danneggiare e incendiare. Il nostro settore, ovviamente, restò tranquillo e ci limitammo ad esporre striscioni di protesta, mentre cercavamo di proteggerci dal fumo, che aveva invaso tutto lo stabilimento.
Ad un certo punto venne spalancata la porta di accesso e comparve un borghese, con un Tenente dei Carabinieri, che tenevano un fazzoletto negli occhi per evitare i danni del fumo.
"Vorrei parlare con l'avvocato Bagedda" disse il borghese, che ritenevo un funzionario degli Istituti di pena. Avanzai e dissi: "Sono l'ex avvocato Bagedda; se crede l'ex onorevole Bagedda, attualmente, più semplicemente, sono la matricola carceraria 6913".
Replica: "Lei è sempre l'avvocato Bagedda. E le faccio i miei complimenti perché qui è tutto
tranquillo e perché ho modo di constatare, con piacere, che non ha perduto il buonumore.
Sono il nuovo Procuratore Generale: stia tranquillo e, se necessario, mi mandi a chiamare".
Quel giorno presi una cotta per il Dr. Alfonso Colonnese e credo che la simpatia sia stata ricambiata, a giudicare da tutto il suo comportamento successivo. E, soprattutto, dal giudizio che dette sul Pubblico ministero che, nella sede dibattimentale, si arrampicava sugli specchi per cercare di porre rimedio a una causa totalmente vuota di prove ed ormai persa.

Altro episodio, accaduto poco dopo, mi convinse definitivamente che la detenzione stava per finire. Il Comandante delle guardie venne a dirmi che il nuovo Direttore del carcere, voleva conoscermi. Aperta la porta dell'ufficio non esitai un momento a correre ad abbracciare il già Tenente Pozzi, che aveva combattuto con me sul fronte russo. Mi confermò di aver chiesto l'autorizzazione ad incontrarmi al Procuratore Generale, il quale l'aveva subito concessa, raccomandandogli di tranquillizzarmi sotto ogni aspetto. Il Dr. Pozzi era stato Responsabile di Porto Azzurro, rivoluzionando i rapporti con gli ergastolani. Mi disse che "mal gliene incolse!". Restai con lui anche dopo la mia scarcerazione e non cessavo di chiedergli perché mai non fosse arrivato prima a dirigere il carcere di Cagliari!...

Voglio ora citare, velocemente, due episodi giudiziari sardi che danno ragione a quel Presidente di Assise d'Appello (non sardo) che mi aveva detto: "Avvocato, che bei delinquenti avete in questa Regione!".

Processo dei "mandarini".
Una mattina venne trovato, in un frutteto alla periferia di un paese, il custode, che era stato disarmato e sgozzato.
Evidentemente dei giovinastri erano entrati nel fondo per prendere mandarini (solo lì veniva prodotta questa frutta) e l'ucciso aveva reagito con una fucilata, ferendo uno dei
ladri, che aveva lasciato tracce di sangue.
Di qui la furibonda reazione, che aveva portato all'omicidio. Vennero arrestati due fratelli.
Trattenuti contro ogni norma, maltrattati, ed alla fine uno dei due accusa l'altro. Né basta, giacché nel corso di una perquisizione, nella loro casa viene trovato un cesto di mandarini.
Nominato difensore, indago e mi convinco che l'imputato, pur facendo parte de! gruppo dei giovinastri, non aveva partecipato all'omicidio. Infatti il Medico condotto (che doveva aver curato il ferito) mi disse di aver visto il mio cliente, la mattina dell'omicidio, con la giacca di tutti i giorni pulita e non imbrattata di sangue.
Gli indumenti dell'assassino, dovevano essere stati investiti dal fiotto di sangue perduto dall'ucciso, per l'alta pressione arteriosa.
Per mesi, con molta cautela, esposi al cliente il mio punto di vista invitandolo a raccontarmi tutto, per consentire di proporre domande subordinate evitando 30 anni o, addirittura, l'ergastolo.
Fino al giorno del dibattimento, l'imputato replicava, serenamente, che dell'episodio non
sapeva nulla e che era totalmente innocente.
Il Pubblico Ministero dell'udienza, Emilio Caredda, Magistrato di valore eccezionale, per cultura, oratoria, ed intuizione della verità nei processi per indizi (da noi il 90% dei casi giudiziari) la mattina della sentenza mi disse d'aver riflettuto tutta la notte, ma doveva chiedere la condanna a trent'anni.
L'imputato, alla richiesta, non batté ciglio, ed analogo comportamento tenne alla lettura
della conforme sentenza.
Dopo circa un'ora ricevetti un suo telegramma. Andato in carcere, mi disse subito che avevo ragione io e che gli assassini, evidentemente protetti, erano stati subito estromessi.
Concluse: "Avvocato, se avessi preso 20 anni non avrei parlato; ma 30 sono troppi e i responsabili non si sono comportati bene, giacché non hanno aiutato economicamente la mia famiglia". A mia domanda: "E i mandarini trovati a casa tua?". Risposta: "Li avevo rubati una settimana prima".

Faida familiare, in un grosso paese della provincia.
Alcuni giovani vedono tre avversari entrare nel bar, con un ospite. Li attendono all'uscita, ed inizia una furibonda lite, tra armati di micidiali coltelli. Naturalmente resta ucciso il solo ospite, e i contendenti, nonostante le impressionanti gravi ferite in tutto il corpo, se la cavano in 30 giorni.
Al dibattimento il cliente mi dice che la ferita mortale l'ha inferta un coimputato difeso dall'avvocato Oggiano. Il collega risponde informando che il suo cliente autorizza il mio ad accusarlo. Replica di questo: "Accusare è una vergogna. Confessi lui". Controreplica: "Confessare è una vergogna e io non confesso".
Così il mio cliente, innocente, autorizzato dal colpevole ad accusarlo, sconta, serenamente, oltre 10 anni di carcere!.
Come non dare ragione al magistrato non sardo, che mi aveva detto: "Che bei delinquenti avete in Sardegna!".

Chiudo questi miei lontani ricordi con la mirabile frase del famoso filosofo tedesco: "Due cose mi riempiono di stupore e meraviglia: il cielo stellato al di fuori di me; il senso del dovere, dentro di me!".

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