Il Tamburino Sardo


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Quarant'anni e non sentirli

Rubrica bassa cucina

Quarant'anni e non sentirli affatto
(Auberon Quin)

QUARANT’ANNI E NON SENTIRLI AFFATTO.

Tanti ne sono passati da quando qualcuno partorì il mirabile slogan “vietato vietare” che infiammò i sogni di tanti zazzeruti a Parigi e dintorni. Era la fantasia al potere, allora – più tardi la fantasia trovò più proficua occupazione in pubblicità. Ma allora, dico, c’era lo spazio per poterci ancora credere, che il Potere poteva essere rintuzzato, che la libertà era un diritto e che non era solo “salire sopra un albero”.

Provateci ora, quarant’anni dopo, a salire sopra un albero: basta che vi troviate nel comune sbagliato e verrà un vigile urbano con fischietto e blocchetto delle multe in mano – e auguratevi che non sia armato – a dirvi che avete infranto l’infrangibile, violato l’inviolabile; avete in pratica disobbedito all’ultimo ordine dell’ultimo dei tanti sovranetti che ci sovrastano la testa: il sindaco.

Hanno aggiunto la stella alla bandana tricolore che gli cingeva l’epa e hanno raggiunto il tripudio dei sensi nel soddisfare le bramosie più inconfessate dei loro elettori con la formulazione dei divieti più fantasiosi, personalizzati, identitari: siamo ciò che vietiamo, aveva del resto già intuito Freud, e loro esaltano l’ego collettivo intramurario partorendo veti settimini, striminziti, purchessia, basta che respirino il loro piccolo “no”.

Datemi potere su una mattonella e comincerò a vietare le sbeccature. L’uomo anela i limiti e una generazione di amministratori pubblici nati a cavallo del ’68 ne sono scesi e ci snocciolano di fronte, generosamente, i loro decaloghi municipali, tracimanti di “non-si-può” e “non-si-deve”, pari pari a novelli Licurghi.

Perché pensare che il potere si possa esprimere altrimenti? Hanno urlato nelle piazze che la politica è dominio, ci hanno creduto, e allora perché chiedere loro l’improponibile, che godano il piacere del condurre, dell’accompagnare le cose pubbliche loro affidate all’indirizzo per cui sono stati votati? Meglio spingere, con un bastone, la bestia in salita o ostruirgli i percorsi che la sua libertà potrebbe ispirargli. Soffriamo di agorafobia, secondo loro, abbiamo terrore degli spazi aperti: l’unica cura è la costruzione di percorsi, rigidi, coatti, ineludibili. Quindici anni fa qualcuno diceva che “tolleranza zero vuole dire intelligenza zero”; sono passati davvero solo quindici anni? Non si può credere.

Siamo guidati da una frotta di nevrotici, illusi che la ragion civica possa sconfiggere l’angoscia della libertà, che l’uomo sia gregge e loro pastori, che un divieto pubblico equivalga alla paterna proibizione, che i cittadini si educhino, che dietro lo schiaffo della guardia ci sia sempre l’amore del capitano.

Abbiamo passato quarant’anni a nascondere il cipiglio del potere dietro il sorriso della televisione: ci volevano quattro sindaci ignoranti, sessantottini imbolsiti, fascisti di sinistra e destra, a restituirci il volto severo dell’autorità, reso appena più digeribile dall’aura grottesca della pubblica forza valvassina esibita dai candidi vigili urbani, che di fronte alle sconvolgenti violazioni dei divieti comunali ci apostroferanno almeno con il consueto “che fa, concilia?”

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