Il Tamburino Sardo


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Lettera Casu

Rubrica bassa cucina

Da Pannella a Stalin: così parlò Antonella Casu
(Azazello)

Girando per internet alle volte si trova qualcosa di curioso: qualcosa che non si cerca, ma che compare d'incanto, per caso, che ci fa scoprire aspetti insospettati di ciò che si crede di conoscere, ma che comunque sorprende.

Questo genere di sorprese non capita quasi mai nei siti che parlano di politica: troppo seriosi e ripetitivi per essere interessanti. Parole di chi è abituato a parlarsi addosso e non si preoccupa di parlare addosso agli altri; giri di frasi senza fine, pleonasmi, perifrasi altezzose. Meglio girarvi al largo. Così mi ha colpito trovare nel sito dei radicali di Sassari ( www.azioneradicale.it) un curioso epistolario tra alcuni iscritti e nientepopodimeno che la segretaria nazionale del partito, Antonella Casu, impegnati in una polemica che – per quanto mi riguarda – ha ben poco interesse, ma che può essere utile a un altro scopo: scoprire come si esprime un segretario nazionale di un partito quando sculaccia qualche militante di periferia evidentemente poco ubbidiente.

L'antefatto è poco significativo: a quanto ho capito i militanti turritani rimproverano alla loro capa di non ascoltarli prima di decidere la politica radicale in Sardegna – niente di sorprendente, insomma – ma è la risposta della segretaria che, forse, ci può dire qualcosa sulla sintassi politica di questi tempi, tra velenelli e punzecchiate, qualcosa di più sulle parole di chi prende le decisioni che contano – che magari avranno a che vedere con quello che pensano.

La prima affermazione ha il peso della gerarchia; si muove pesante l'enunciato e breve come il passo di un vero capo branco, trincia circonlocuzioni e dubitative, ignora le possibilità di un dubbio e poggia tutto sul verbo del potere: tu “devi”. Il richiamo alla coerenza del soldato (che ha giurato sul libro ed il moschetto, mica 'sti cazzi) ha in sé la pesantezza della responsabilità di chi condivide il valore di un progetto, l'orgoglio di un obiettivo, di una vetta da raggiungere – poco male se non ne conosce i particolari, i segreti arcani, le oscure strade da percorrere per conseguirla. Il soldato sa che altri sanno per lui, e ciò gli è di sostegno più che di consolazione. Troppo forte sarebbe sostenere la conoscenza di ciò che è bene gli sia oscuro – così che possa sorprendersi a scoprirlo, rapito dall'alta sagacia di chi lo ha guidato fin lì.

Del resto questo è il nostro esercito (per Dio), queste le nostre regole, questa la nostra divisa – bello o brutto che sia, è il mio Paese (o il mio Partito, secondo i gusti). La segretaria dopo la tonica detta la dominante: le regole del gioco erano chiare dall'inizio (oh bella!), mica si possono cambiare così giusto per gusto, diventare d'un tratto democratici e rispettosi del parere di chi è chiamato ad applicare le decisioni – e che siamo diventati? Mica siamo brutti e sporchi come tutti gli altri, noi.

Chi ha bisogno delle libertà borghesi quando si possiede la verità – dice la segretaria -?
Mica siamo come tutti gli altri, ah! Quelli delle segreterie provinciali, e regionali, e comunali e circoscrizionali, puah! Quelli che devono fare i conti con le burocrazie feudali, le camarille correntizie, i compromessi con i mille e mille satrapi periferici.
Noi no – dice la segretaria – noi siamo altro da ciò. Altro dalla prassi corrente di una politica ridotta alla mera gestione di un consenso contrattato, altro dalla finta libertà di un dissenso svalutato dall'ipocrisia e dall'interesse di chi vanta una squallida rendita di posizione nella gerarchia di una sovrastruttura partitica.

La rivendicazione di una diversità antropologica è una costante nei gruppi settari: siamo incomparabili agli altri perché la nostra differenza è un valore, che il dissenso non riconosce e che quindi non ha diritto a condividere. La segretaria inanella una serie di petizioni di principio indimostrabili e alle quali richiama un'adesione fideistica. Richiamando, a contrario, i molteplici diritti di chi ne accetti i postulati.

È una costante delle fedi la reificazione dell'ossimoro, l'inveramento ideologico della falsità dell'evidenza sensibile. Solo nell'obbedienza si è liberi dalla schiavitù della scelta: lo dicono i papisti, lo ripetono i radicali.
E il passaggio ulteriore è un inoltrarsi nelle regioni dell'ideologia praticata (oltre che teorizzata), presa di peso dalla scuola massima di simili sillogismi: il leninismo.
Ossia, dopo la lezione viene il giudizio, severo, rigido, coerente. Solo i migliori tra i miei discepoli hanno diritto ad interloquire col capo – dice la segretaria messianizzata – e così i miserelli che hanno balbettato le critiche scoprono quanto è dura la verga che punisce.

La segretaria alza l'indice, ammonisce i reprobi privi di crediti guadagnati sul campo della pregressa obbedienza, distingue sul campo i migliori dai mediocri. Tutti i propri figli ama il Signore, ma mica divide in parti uguali la sua confidenza, e che cazzo!
Così si scopre che alcuni hanno diritto a conversare col Padre e conoscere dalle Sue parole dirette la verità ammansita, altri la scoprono riflessa, la vedono di sguincio, la invidiano a chi la conosce priva di schermi.

La segretaria vorrebbe instillare la giusta gelosia per chi ha acquisito tale favore per meriti lontani, indicare nell'esempio la corretta strada della militanza ideale, quella che porta alla benevolenza e al rispetto da parte dei capi, ma temo sortisca l'effetto opposto.
Nessuno ama sentirmi sminuito di fronte ai propri vicini – la concorrenza non spiega i suoi benefici effetti nel confronto tra prossimi in politica.
Così succede che la reprimenda si avvolga in uno sterile monito, più noioso che spaventevole; che la formula rituale di chiusura, quella che dichiara sempre e comunque possibile il ritorno all'ovile delle pecore matte, sia credibile quanto il sorriso secco dell'avversario a carte.

Ci scommetto: con tutta la possibile buona volontà della segretaria – animata magari dal fervore del pastore che recupera il gregge – la risposta che si beccherà da quel gruppo di iscritti, presi a calci dall'inizio alla fine della lettera, non potrà che essere un sonoro vaffanculo.

A lei e a tutta la compagnia.




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