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Autonomie locali

Rubrica Salotto buono

Pluralismo paritario e autonomie locali nel regionalismo italiano
(Omar Chessa)

Sommario: Parte I. Pluralismo paritario e sovranità popolare: 1. Il rifiuto del «pluralismo istituzionale paritario» nella dottrina maggioritaria e in una sentenza della Corte costituzionale – 2. Perché la differenziazione funzionale non equivale a gerarchia – 3. Tre argomenti contro l’evocazione della sovranità statale – 4. Segue: le conseguenze che derivano dal principio costituzionale di sovranità popolare – Parte II. Le autonomie locali nel regionalismo ordinario: 1. Pluralismo paritario e autonomie locali – 2. Il vecchio modello «triangolare» delle relazioni tra Stato, regioni ed Enti locali e la scissione tra governo e amministrazione – 3. Le innovazioni più significative del quadro costituzionale delle autonomie locali, introdotte dalla legge costituzionale n. 3 del 2001 – 4. La garanzia costituzionale della potestà regolamentare locale e il (nuovo) parallelismo tra gestione e governo della funzione amministrativa – 5. Potestà regolamentare locale e fonti legislative – 6. La controversa nozione di «funzioni fondamentali» ex art. 117, secondo comma, lett. p): conferma o superamento del modello “triangolare”? – 7. Segue: l’alternativa tra accezione ristretta ed estensiva di funzioni fondamentali – Parte III. Le autonomie locali nel regionalismo speciale: 1. Il regime del «doppio binario» – 2. L’insostenibile schizofrenia del regime costituzionale speciale – 3. Le prospettive di riforma.



Parte I
Pluralismo paritario e sovranità popolare


1. L’art. 114 della Costituzione e, in generale, il nuovo Titolo V realizzano un sistema di «pluralismo istituzionale paritario»?[1]
Se guardiamo all’orientamento maggioritario della comunità scientifica nazionale (dei giuspubblicisti), la risposta è negativa. A detta dei più, nel diritto costituzionale vigente esisterebbe ancora una scala gerarchica che dagli Enti locali ascende fino allo Stato, passando per le Regioni.
Ciò ha trovato una sponda nella giurisprudenza costituzionale.
Nella sentenza n. 365 del 2007 la Corte dice che non esiste una sovranità regionale. L’asserzione in sé è condivisibile. Senonché, per negare la sovranità regionale, il giudice costituzionale fa resuscitare il vecchio dogma della sovranità statale, proponendo una lettura assai tradizionale del dittico sovranità/autonomia: da una parte vi sarebbe lo Stato, solo ente qualificabile come “sovrano”, dall’altra le Regioni e gli Enti locali, espressivi non di sovranità ma solo di autonomia; e quindi collocati in posizione di subordinazione gerarchica rispetto al primo[2].
La conclusione della Consulta si regge sul seguente sillogismo:
A) Anzitutto pone come premessa maggiore l’idea che la sovranità e l’autonomia siano due «concezioni tra loro radicalmente differenziate sul piano storico e logico (tanto che potrebbe parlarsi di un vero e proprio ossimoro piuttosto che di una endiadi)»[3]. Inoltre i due termini sarebbero indissolubilmente collegati, in guisa tale per cui all’autonomia di un dato soggetto (o ente) non potrebbe che corrispondere logicamente la sovranità di un altro, e viceversa. Nella prospettiva teorica seguita dalla Corte si è “autonomi” sempre rispetto a chi è “sovrano”; e quest’ultimo, a sua volta, è tale proprio perché ogni altro e diverso ente dell’ordinamento può al massimo possedere una condizione di autonomia: la quale dunque non sarebbe altro che una forma meno intensa di soggezione alla sovranità statale.
B) La premessa minore del sillogismo è tratta dall’art. 114 Cost. Tale disposizione, infatti, nel primo comma include sì lo Stato tra gli enti costitutivi della Repubblica (insieme a Regioni, Province, Comuni e Città metropolitane), ma nel secondo comma riserva invece soltanto a Regioni, Province, Comuni e Città metropolitane la qualifica di «enti autonomi»[4].
C) Ora, se la sovranità e l’autonomia sono termini distinti ma collegati e se l’art. 114 riserva la qualifica di autonomi a tutti gli enti territoriali costitutivi della Repubblica tranne che allo Stato, la conclusione che la Corte ne trae non può che essere la seguente: per differentiam lo Stato deve qualificarsi come “ente sovrano”, col risultato che «la sovranità interna dello Stato conserva intatta la propria struttura essenziale, non scalfita dal pur significativo potenziamento di molteplici funzioni che la Costituzione attribuisce alle Regioni ed agli enti territoriali»[5].

2. Nella prospettiva accolta dalla sent. 365/2007 l’art. 114 Cost. non fonderebbe alcun «pluralismo istituzionale paritario».
Non per caso il giudice costituzionale aggiunge che è sbagliato interpretare tale disposizione come se equiparasse «pienamente tra loro i diversi soggetti istituzionali che pure tutti compongono l’ordinamento repubblicano, così da rendere omogenea la stessa condizione giuridica di fondo dello Stato, delle Regioni e degli enti territoriali».
Tuttavia quest’orientamento della Corte non è condivisibile. Che tra gli enti costitutivi della Repubblica non vi sia totale equiparazione funzionale (perché non esercitano tutti le medesime competenze) non depone affatto contro la tesi del pluralismo istituzionale paritario; né trattasi di premessa da cui si possano ricavare conclusioni sulla spettanza della sovranità e quindi sulla graduazione gerarchica dei livelli di governo.
Difatti, la differenziazione funzionale non equivale per nulla a gerarchia su basi di valore. Non fonda la distinzione tra ciò che è più pregiato, perché appartenente alla sfera della sovranità, e ciò che è meno pregiato, perché attratto nell’orbita dell’autonomia. Per giungere a questa conclusione bisognerebbe poter misurare il quantum di potestà che spetta a ciascun ente, per poi inferirne il maggior peso qualitativo e quantitativo delle competenze statali. Ma si tratta di operazione complessa e altamente opinabile negli esiti[6].
Difatti, se pure non v’è dubbio che spetta ad organi costituzionali (e quindi inscritti in quello che tradizionalmente si definiva Stato-soggetto) il potere sostitutivo straordinario, l’impugnazione delle leggi regionali per qualsiasi vizio di legittimità, il potere di revisione costituzionale, ecc., è però altrettanto vero che adesso la competenza legislativa generale è delle Regioni, che le funzioni amministrative e normative (e quindi di “governo”) degli enti locali godono di un favor nel riparto delle competenze tra i livelli di governo, ecc.[7]
Del resto, anche tra gli organi costituzionali vi sono differenziazioni funzionali su base competenziale, ma non certo rapporti di gerarchia: è più importante il Parlamento o il Governo? Il Presidente della Repubblica o la Corte costituzionale? Come ognun vede, sono domande cui è impossibile rispondere.

3. Che tra i diversi enti costitutivi della Repubblica vi sia differenziazione funzionale non dimostra di per sé che tra gli stessi ci sia pure gerarchia. Ma non dimostra neppure che vi sia equiordinazione. Per respingere dunque il modello della sovranità statale e la conseguente tesi secondo cui l’art. 114 Cost. disegnerebbe una struttura piramidale, occorrono ulteriori argomenti.
Ne propongo tre.
In primo luogo va detto che se è la Costituzione a definire le competenze spettanti a ciascun ente costitutivo della Repubblica, il rapporto tra l’ordinamento statale, da una parte, e gli ordinamenti regionali e locali, dall’altra, non può descriversi come lo stesso che corre tra un ordinamento originario e i relativi ordinamenti derivati, né come quello che passa tra l’ordinamento generale e gli ordinamenti particolari, come invece sarebbe postulato dall’accoglimento del binomio sovranità/autonomia[8]. Sicché, alle autonomie regionali e locali non corrisponde dialetticamente la sovranità statale, poiché quelle non sono il frutto, sempre revocabile, dell’autolimitazione di questa[9].
La seconda ragione fa leva sull’art. 5 della Costituzione. Da questo si ricava tutt’altro che l’idea della sovranità statale, soprattutto se viene letto in combinazione con l’art. 114. Pur ammettendo, infatti, che si possa far coincidere l’unità e indivisibilità dell’ordinamento repubblicano con la sua sovranità, in ogni caso si tratterebbe di “sovranità della Repubblica” e non già dello Stato: spetterebbe, cioè, all’intero e non a una sua parte[10].
Tra l’altro ciò è quanto si ricava anche dalla stessa giurisprudenza costituzionale: la sentenza n. 106 del 2002, infatti, asserisce che la sovranità popolare si diffonde nell’intero tessuto delle articolazioni repubblicane, divenendo così la sovranità della Repubblica complessivamente intesa, cioè una qualità che si trasmette in eguale misura a tutti i livelli di rappresentanza politica elencati nell’art. 114.
Ma a questo punto, siamo giunti alla terza – più pregnante – ragione: il principio costituzionale di sovranità popolare.

4. Bisogna infatti chiedersi se – vigente la nostra costituzione repubblicana – sia legittimo adoperare in chiave normativa un modello teorico imperniato su un concetto di sovranità diverso da quello sancito all’art. 1, secondo comma. Il problema teorico, in altri termini, è se accanto alla sovranità popolare possa convivere la sovranità statale. O se, addirittura, la prima non debba concettualmente e praticamente risolversi nella seconda.
Non è un dibattito nuovo: risale almeno agli anni ’50 del secolo appena trascorso. All’indomani dell’entrata in vigore della Costituzione del 1948 la dottrina maggioritaria riconobbe da subito la portata innovativa del principio costituzionale di sovranità popolare rispetto alla risalente tradizione dogmatica della sovranità statale, sottolineandone la radicale alternatività[11].
In particolare, lo studioso che più recisamente ha sostenuto l’impossibilità che nel nostro ordinamento coesistano sovranità popolare e statale è Vezio Crisafulli. A suo giudizio «l’accoglimento in sede di diritto positivo del principio della sovranità popolare» farebbe sì che «nella logica del sistema (…) il popolo (sia) la fonte dell’ordinamento costituzionale e di ogni potestà pubblica esercitatesi nell’ambito di esso» e che «lo Stato-soggetto (abbia) una potestà di governo che non può definirsi più come sovrana, perché derivata da quella spettante – originariamente o anche in atto – al popolo»[12].
Queste acquisizioni sono penetrate profondamente anche nella giurisprudenza della Corte costituzionale. Mi riferisco alle sentenze n. 106 e 306 del 2002 ove si afferma che «il legame Parlamento-sovranità popolare (…) non descrive i termini di una relazione di identità, sicché la tesi per la quale, secondo la nostra Costituzione, nel Parlamento si risolverebbe, in sostanza, la sovranità popolare, senza che le autonomie territoriali concorrano a plasmarne l’essenza, non può essere condivisa nella sua assolutezza».
Che la sovranità popolare non si converta nella sovranità di organi dello Stato-soggetto è detto chiaramente dal seguente passaggio della sent. 106: «l’articolo 1 della Costituzione, nello stabilire, con formulazione netta e definitiva, che la sovranità “appartiene” al popolo, impedisce di ritenere che vi siano luoghi o sedi dell’organizzazione costituzionale nella quale essa si possa insediare esaurendovisi». Non solo: in quella occasione il giudice costituzionale pose la sovranità popolare in stretta correlazione proprio con il nuovo Titolo V, evidenziando come «nella formulazione del nuovo art. 114 della Costituzione (…) gli enti territoriali autonomi (siano) collocati al fianco dello Stato come elementi costitutivi della Repubblica quasi a svelarne, in una formulazione sintetica, la comune derivazione dal principio democratico e dalla sovranità popolare».
Anche se tutte le istituzioni rappresentative di tutti gli enti territoriali della Repubblica veicolano la sovranità popolare, la loro somma però non la esaurisce: e quindi, non solo non si risolve nelle prestazioni rappresentative offerte da organi statali, ma neppure si risolve nelle prestazioni rappresentative complessivamente fornite dall’intero sistema repubblicano: «le forme e i modi nei quali la sovranità del popolo può svolgersi – sempre come si legge nella sent. 106 del 2002 – non si risolvono nella rappresentanza, ma permeano l’intera intelaiatura costituzionale (corsivo mio)».
Per quanto si può trarre, dunque, dalla giurisprudenza costituzionale, il senso normativo del principio di sovranità popolare è quello di disgiungere la sovranità dal circuito rappresentativo. Nella Repubblica multilevel non c’è un Träger del potere sovrano, sia esso un organo costituzionale statale ovvero il livello di governo statale ovvero la somma dei livelli di governo della Repubblica (cioè, sia esso un organo rappresentativo ovvero un ente territoriale ovvero la somma degli enti territoriali e dei loro organi rappresentativi)[13].


Parte II
Le autonomie locali nel regionalismo ordinario


1. Il pluralismo paritario è quanto consegue dalla coerente lettura e applicazione del principio di sovranità popolare. La sua portata oltrepassa l’ambito dei rapporti tra Stato e Regioni e concerne altresì i rapporti tra i primi due e gli enti locali minori elencati nell’art. 114 Cost. Il principio dell’equiordinazione vale dunque per tutti: diversamente bisognerebbe sostenere che la sovranità popolare trova espressione privilegiata in taluni livelli di governo (lo Stato e la Regione) e depotenziata in altri (Province e Comuni).
Se questa premessa è corretta, il principio dell’equiordinazione (o del pluralismo paritario) deve assumersi come criterio interpretativo delle disposizioni che definiscono il nuovo quadro costituzionale delle autonomie locali, quale risulta dalle innovazioni introdotte con la legge costituzionale n. 3 del 2001. E invero tale operazione non mostra profili di particolare complessità, poiché il vigente statuto costituzionale degli enti locali già prima facie si palesa come un’articolazione conseguente del principio incorporato nell’art. 114 Cost.
Ma prima di illustrare le coordinate di fondo del nuovo sistema può essere utile un confronto col passato.

2. I due pilastri del quadro previgente erano: a) la riserva generale di legge statale prevista dal vecchio art. 128 e b) il parallelismo tra funzioni legislative e funzioni amministrative previsto dal vecchio art. 118.
a) In base al primo pilastro (art. 128) le province e i comuni dovevano considerarsi «enti autonomi nell’ambito dei principi fissati da leggi generali della Repubblica, che ne determinano le funzioni». Vigeva dunque una riserva generale di legge statale cosicché la materia “ordinamento degli enti locali” era interamente attratta nella competenza del legislatore nazionale: sostanzialmente l’autonomia locale era quello che il legislatore statale decideva che fosse (fermo restando il rispetto di un nucleo minimo indefettibile per effetto del generale principio autonomistico enunciato dall’art. 5 Cost.).
b) In base al secondo pilastro (art. 118), lo Stato era titolare delle funzioni amministrative nelle materie di competenza statale, le Regioni in quelle di competenza regionale, ma la legge statale poteva attribuire agli enti locali quelle di «interesse esclusivamente locale».
Il modello disegnato dagli artt. 128 e 118 prefigurava una sorta di sistema «triangolare»[14]. I rapporti fra Stato, Regioni ed Enti Locali potevano descriversi e rappresentarsi graficamente con l'immagine di un triangolo equilatero: al vertice superiore c'era lo Stato e nei due angoli inferiori e opposti la Regione e gli Enti Locali. In quanto vertice superiore, il ruolo dello Stato era quello di mediare i conflitti fra Regioni ed Enti Locali e di garantire l'autonomia locale contro il rischio del centralismo regionale.
Inoltre, il vecchio principio del parallelismo tra funzioni amministrative e legislative (previsto dal vecchio art. 118 Cost.) si reggeva sulla distinzione tra governo e amministrazione, perché conteneva sempre in nuce la possibilità di una scissione tra chi disciplinava (e quindi governava) la funzione e chi invece ne gestiva concretamente l’esercizio (e chi gestiva concretamente la funzione senza effettivamente governarla era l’ente territoriale diverso dallo stato e dalla regione). In altre parole, chi governava la funzione (cioè lo Stato e/o la Regione), predeterminandone senso, direzione e obiettivi, poteva anche amministrarla concretamente mediante attività propriamente gestionali; epperò non esisteva la regola inversa, perchè c'erano alcuni enti (le Province e i Comuni) che avevano la possibilità di amministrare la funzione mediante attività meramente gestionali, ma non già di governarla nel senso pieno e proprio del termine.

3. Con la riforma del titolo V, introdotta dalla legge costituzionale n. 3 del 2001, il quadro muta e il modello delle relazioni triangolari viene sostituito da una logica istituzionale differente, cui s’attaglia la denominazione di multilevel system of government.
Beninteso, non sono mancate le interpretazioni svalutative, talune tendenti a sminuire la portata delle novità, altre – più radicali – ad escludere che d’autentiche novità si trattasse. Tuttavia, l’impressione generale è che qualcosa sia cambiato e anche in modo significativo.
Basta una rapida elencazione per avvedersene:
- superamento della riserva generale di legge statale in materia di ordinamento degli enti locali[15] e sua sostituzione con una riserva limitata agli organi di governo, le funzioni fondamentali e la legislazione elettorale degli enti locali, come disposto dall’art. 117, comma secondo lett. p;
- abbandono della regola del parallelismo tra funzioni legislative e funzioni amministrative, per fare luogo al principio di sussidiarietà ex art. 118;
- nuova formulazione dell’art. 114, che non solo distingue tra Repubblica e Stato (sicché quest’ultimo non è più il tutto ma una parte) ma dice altresì che, oltre alle Regioni, anche i Comuni, le Province e le Città metropolitane sono enti autonomi, con propri statuti, poteri e funzioni, secondo i principi fissati dalla Costituzione;
- e infine, espresso riconoscimento costituzionale delle competenze regolamentari locali nell’art. 117, sesto comma.
Dunque ci troviamo di fronte ad uno sviluppo ulteriore del principio autonomistico di cui all’art. 5 Cost.; col risultato che le nuove disposizioni in tema di autonomia locale debbono interpretarsi in modo da trarne conseguenze più ampie rispetto a quelle che si potevano dedurre dal quadro previgente: in ogni caso, deve trattarsi di conseguenze coerenti col principio di equiordinazione e con il sotteso modello multilevel.

4. Non c’è spazio per la trattazione approfondita di tutti i punti elencati sopra. Conviene dunque concentrare l’attenzione su quegli aspetti che maggiormente imprimono un mutamento di modello rispetto alla disciplina costituzionale previgente. Mi riferisco, in particolare, al combinato disposto degli artt. 118 e 117, sesto comma[16].
L’art. 118 è probabilmente la disposizione più innovativa del nuovo Titolo V, soprattutto nella parte in cui enuncia il principio di sussidiarietà. La previsione di un favor per le allocazioni di funzioni amministrative a beneficio degli enti locali minori (cui è possibile derogare solo argomentando la ragionevolezza dell’attrazione della funzione verso l’alto), rompe il vecchio criterio del parallelismo tra titolarità della funzione legislativa e titolarità della funzione amministrativa e rafforza indubbiamente la posizione costituzionale dei Comuni e delle Province.
Non si coglie però sino in fondo la portata di questa novità se non si legge l’art. 118 in combinato disposto con l’art. 117, sesto comma, cioè con la previsione e la garanzia costituzionale della potestà regolamentare locale.
Da una lettura superficiale dell’art. 117 parrebbe che il riparto della competenza regolamentare tra gli enti costitutivi della Repubblica sia di tipo binario, realizzando una sorta di combinazione tra criterio materiale e criterio funzionale: mentre il primo criterio riguarderebbe il rapporto tra regolamenti statali e regolamenti regionali[17], il secondo invece concernerebbe il rapporto tra i regolamenti locali e tutti gli altri[18]. In realtà questa è solo un’illusione ottica. A ben vedere, il criterio funzionale assorbe quello materiale, col risultato che chi ha la titolarità della funzione amministrativa (sia esso Stato, Regione o Ente locale) ha sempre la disponibilità del relativo potere regolamentare.
Si accede a questa conclusione se s’interpreta l’inciso «salva delega», contenuto nell’art. 117, sesto comma, come se si riferisse non già alle competenze regolamentari in materia statale (che lo Stato decidesse, appunto, di delegare alle Regioni), ma alle funzioni amministrative in materie statali (che la legge statale, appunto, allocasse a livello regionale)[19]. In sostanza, se «salva delega» significa «salva delega di funzione amministrativa» (anziché «salva delega di potestà regolamentare»), l’art. 117, sesto comma, va letto così: “lo Stato ha competenza regolamentare nelle materie di legislazione esclusiva, ma solo in relazione alle funzioni amministrative che abbia trattenuto presso di sé. Se invece conferisce la funzione amministrativa, automaticamente conferisce il relativo potere regolamentare, spogliandosene”. Come si vede, accogliendo quest’interpretazione (di «salva delega») il criterio materiale di riparto della competenza regolamentare tra Stato e Regioni si risolve infine nel criterio funzionale.
Si fa strada, dunque, l’idea che la funzione regolamentare sia direttamente strumentale all’esercizio di competenze amministrative[20]. Far corrispondere alla titolarità di un compito amministrativo la titolarità di un apposito potere regolamentare equivale, infatti, a porre a capo di ogni attività amministrativa una funzione di governo: ad affermare il principio secondo cui non c’è amministrazione senza governo. La scissione tra “enti di governo” ed “enti di amministrazione” non è più possibile. E al (vecchio) parallelismo tra legislazione ed amministrazione si sostituisce il (nuovo) parallelismo tra attività amministrativa e attività normativa in senso lato, cioè tra amministrazione e governo della funzione[21].
Insomma, acquistando la titolarità di una funzione amministrativa si acquista anche il potere, costituzionalmente garantito, di orientarne l’esercizio verso i fini che meglio si ritiene possano garantire l’interesse della comunità amministrata. Ciò è una coerente articolazione del pluralismo paritario: scompare o perlomeno s’attenua sensibilmente la logica del modello «triangolare», cui si sostituisce progressivamente il riconoscimento degli Enti Locali come enti di governo che amministrano e, appunto, governano la funzione attraverso un potere normativo direttamente garantito in Costituzione.
Una conferma di questo orientamento è nella sentenza n. 246 del 2006, dove si legge che la legge regionale «non può contestualmente pretendere di affidare ad un organo della Regione – neppure in via suppletiva – la potestà regolamentare propria dei Comuni o delle Province in riferimento a quanto attribuito loro dalla legge regionale medesima. Nei limiti, infatti, delle funzioni attribuite dalla legge regionale agli enti locali, solo quest’ultimi possono – come espressamente affermato nell’ultimo periodo del sesto comma dell’art. 117 Cost. – adottare i regolamenti relativi all’organizzazione ed all’esercizio delle funzioni loro affidate dalla Regione»[22]. Ebbene, se la legge non può scindere la funzione amministrativa da quella regolamentare, attribuendole ad enti diversi, e se il più contiene il meno, è facile dedurne che la potestà regolamentare si acquista automaticamente per il solo fatto di ricevere il conferimento della correlata funzione amministrativa.
Il criterio funzionalistico di distribuzione delle competenze regolamentari erige delle paratie rigide tra le potestà regolamentari esercitabili dai diversi livelli di governo: da un regolamento non si possono ricavare norme in grado di vincolare amministrazioni diverse da quella che fa capo all’ente che lo adotta. Un regolamento statale non può vincolare un’amministrazione regionale e un regolamento regionale non può vincolare un’amministrazione locale, quali che siano le materie su cui insistono le funzioni amministrative esercitate.
Ma le novità legate a questo parallelismo tra funzione amministrativa e competenza regolamentare non si esauriscono qui.

5. In base alla sent. 246 del 2006 la riserva di regolamento locale è opponibile nei confronti delle fonti legislative nella misura in cui impedisce loro di autorizzare una potestà regolamentare statale o regionale in relazione alle funzioni conferite agli enti locali. La legge conserva il potere di allocare le funzioni amministrative (nel rispetto però del principio di sussidiarietà), ma perde quello di stabilire la titolarità del connesso potere regolamentare[23].
Ma c’è dell’altro. Il criterio funzionalistico proietta la propria luce anche sul rapporto tra regolamento locale e fonte legislativa, informandolo al canone di sussidiarietà[24].
Se difatti si combina la regola della corrispondenza tra funzione amministrativa e funzione regolamentare col principio sotteso nell’art. 118 Cost., la conclusione è immediata: lo stesso favor di cui godono i comuni (e in genere i livelli di governo inferiori) in riferimento all’attribuzione delle funzioni amministrative si trasmette anche alle funzioni regolamentari, cosicché alla massima estensione possibile dei compiti amministrativi, compatibilmente con la tutela delle esigenze unitarie, dovrà corrispondere la massima estensione possibile della relativa competenza regolamentare (sempre compatibilmente con la tutela legislativa di istanze unitarie).
Ne discende che la legge (statale o regionale) non solo dovrà astenersi dal predisporre una disciplina della funzione conferita che non lasci spazio alcuno alla fonte locale, ma in tanto potrà attrarre a sé segmenti di disciplina della funzione suddetta in quanto ciò sia ragionevolmente giustificabile in vista della tutela di esigenze unitarie[25]. Il rapporto tra fonte legislativa e regolamento locale non è pertanto di tipo gerarchico[26].
Del resto, questa conclusione è, di fatto e implicitamente, accolta anche da molti che espressamente ribadiscono la perdurante validità della costruzione gerarchica. C’è chi, ad esempio, asserisce che la legge, pur gerarchicamente sovraordinata al regolamento locale, deve tuttavia essere ragionevole e giustificarsi «in relazione al principio di sussidiarietà»[27]. Quando però una legge è irragionevole e contraria a sussidiarietà? Immagino che ciò accade quando il limite che pone a carico dell’autonomia locale non è giustificato dall’esigenza unitaria, cioè dalla ratio, dall’obiettivo perseguito dalla legge; vale a dire, quando realizza una compressione dell’autonomia locale che è eccessiva rispetto a quanto sarebbe necessario per conseguire l’esigenza unitaria. Ebbene, è chiaro che in tal caso non ci troviamo dinanzi a gerarchia, bensì dinanzi ad una diversa formulazione dell’idea che il regolamento locale goda di una competenza tendenziale, ragionevolmente derogabile – appunto – secondo sussidiarietà[28].
Per chiarire meglio il ruolo del principio di sussidiarietà nel governo dei rapporti tra legge e fonte locale, si è fatto leva sul binomio “interno/esterno”: cosicché la prima avrebbe carattere “sussidiario” (e perciò legittimo) in quanto «si occupi di quei profili dell’organizzazione e dei procedimenti che mettono in relazione il Comune con le altre amministrazioni e con i privati», con l’effetto che deve di contro «mantenersi in capo all’ente locale tutto ciò che riguarda gli aspetti gestionali interni»[29].
Seguendo questo schema, la legge regionale potrebbe vincolare l’amministrazione dell’ente cui ha conferito la funzione (e quindi disporre in luogo della fonte locale) solo nella misura in cui, per soddisfare l’esigenza unitaria sia necessario coordinare l’attività dell’amministrazione locale con quella di soggetti estranei all’apparato dell’ente (dimodoché l’esercizio associato di funzioni amministrative comunali non potrebbe, ad esempio, disciplinarsi con regolamento comunale nella parte in cui occorre definire le modalità del “contatto” e del reciproco rapportarsi delle amministrazioni interessate).
Senonché, sarebbe sbagliato intendere il binomio “interno/esterno” in modo rigido.
Non c’è dubbio che i profili gestionali interni (per definizione privi di ricadute esterne perché esaurenti la loro portata entro i confini dell’amministrazione) debbano spettare al regolamento locale. Da ciò non consegue però che, in modo esattamente simmetrico, i profili gestionali esterni debbano, a loro volta, disciplinarsi con legge. In realtà è più corretto dire che la legge può eventualmente disciplinarli, ma soltanto se è necessario per il raggiungimento delle esigenze unitarie.
E quindi i profili gestionali esterni (che comportino, cioè, ricadute sul versante dei rapporti con altre amministrazioni o con soggetti privati) ricadono anch’essi, in linea di principio, nella competenza del regolamento locale[30]. Nulla può escludere, infatti, che sia la stessa fonte locale ad aprire l’attività e l’organizzazione dell’apparato dell’ente a raccordi e forme di collaborazione con amministrazioni diverse o con soggetti privati. E così, se la collaborazione non sorge spontaneamente, pur essendo necessaria per assicurare la piena soddisfazione dell’obiettivo unitario, la legge può imporla alle amministrazioni interessate: ma se la forma di collaborazione esterna prevista dalla fonte locale è adeguata (rispetto allo scopo unitario) quanto quella prevista dalla disciplina legislativa, allora è doveroso preferirla alla seconda.

6. Tra gli assunti del modello triangolare c’era l’idea che lo Stato fosse il difensore dell’autonomia locale contro il centralismo regionale. Un’idea dura a morire, se è vero che ancora oggi fa capolino dietro l’interpretazione maggioritaria d’alcuni istituti introdotti dalla legge costituzionale 3/2001.
Mi riferisco soprattutto all’art. 117, secondo comma, lett. p), che sostituisce la previgente riserva generale di legge statale in materia di ordinamento locale con una riserva limitata ai soli organi di governo, funzioni fondamentali e legislazione elettorale degli enti locali: in particolare la questione controversa è il significato e l’estensione della nozione di funzioni fondamentali.
Dico subito che trovo convincente la tesi che vi riconduce le funzioni statuente e regolamentare di Comuni e Province, la cui disciplina delle condizioni d’esercizio sarebbe pertanto attratta nella competenza legislativa statale[31].
Reputo invece meno convincente la tesi che amplia la portata della formula funzioni fondamentali in modo da ricomprendervi pure le funzioni amministrative: in questa ricostruzione si palesa, secondo me, la vischiosità del vecchio modello triangolare.
Procedendo con ordine, sul punto si possono distinguere almeno tre posizioni:
a) c’è chi sostiene che le funzioni fondamentali siano solo quelle amministrative e che, pertanto, il legislatore statale non abbia titolo a disciplinare le condizioni d’esercizio delle funzioni statuente e regolamentare degli enti locali[32];
b) c’è chi, invece, ritiene che debbano intendersi soltanto come funzioni di tipo ordinamentale (e non anche amministrative), attinenti alla dimensione o cornice istituzionale dell’ente entro cui devono esercitarsi le competenze amministrative attribuite, anche in modo differenziato, dalle leggi statali e regionali[33];
c) C’è, infine, chi ritiene che le funzioni fondamentali riguardino sia funzioni ordinamentali che amministrative in senso proprio, operando quindi come «titolo di ingerenza della legge statale nelle materie regionali»[34]. È evidente infatti che se fossero funzioni amministrative in materia statale non vi sarebbe bisogno di qualificarle come fondamentali, appellandosi all’art. 117, secondo comma, lett. p: sarebbero semplicemente funzioni «conferite» ex art. 118 Cost.
Scarterei subito la tesi a), perché scinde in modo inaccettabile la disciplina relativa agli organi di governo degli Enti locali (riservata alla legge statale) dalla disciplina relativa agli atti attraverso i quali si esplicherebbe la loro funzione di governo (riservata ad altre fonti: immagino, in primis, la legge regionale). A parte l’argomento topografico, cioè l’essere le nozioni di organi di governo e di funzioni fondamentali collocate nella medesima disposizione[35], è evidente che la disciplina della forma di governo locale deve riguardare sia la disciplina dei rapporti che intercorrono tra gli organi che la compongono sia quella delle funzioni che spettano loro: chiedersi quali siano i rapporti tra Consiglio e Giunta equivale a chiedersi quali siano le funzioni attraverso le quali esercitano il potere di direzione politica[36].
L’alternativa è allora costituita dalle tesi b) e c), cioè dall’accezione ristretta e da quella estensiva di funzioni fondamentali.

7. Accedendo alla tesi b), cioè all’interpretazione restrittiva, le funzioni fondamentali riguarderebbero soltanto quelle ordinamentali attraverso cui gli organi di governo esercitano l’attività d’indirizzo politico: la legge statale dunque circoscriverebbe per tutti gli enti del medesimo tipo un nucleo minimo, inderogabile e uniforme di poteri ordinamentali degli organi di governo (lasciando il resto alla disciplina regionale differenziata).
Questa impostazione evidenzia la novità del riformato Titolo V rispetto al quadro costituzionale previgente, perché segna il passaggio da un sistema imperniato sulla riserva generale di legge statale in materia di ordinamento locale – come prevedeva l’abrogato art. 128 Cost. – a un sistema in cui la disciplina dell’ordinamento degli Enti locali è rimesso solo parzialmente alla legislazione statale (e precisamente, nei soli casi dell’art. 117, secondo comma, lett. p).
O meglio: potrebbe anche darsi che la disciplina delle «funzioni fondamentali» comprenda l’intera materia dell’ordinamento locale, ma ciò non sarebbe scontato. Ciò dipende invero dal senso che si attribuisce all’aggettivo «fondamentali»: se, cioè, debba intendersi come sinonimo di «ordinamentali» in senso lato (e quindi potenzialmente in grado di assorbire l’intera materia «ordinamento degli enti locali», lasciando poco o nulla alla legislazione regionale) ovvero come ciò che è da considerare fondamentale e più importante all’interno di ciò che ha una valenza ordinamentale (lasciando perciò fuori dalla competenza statale ciò che, pur essendo “ordinamentale”, non è tuttavia “fondamentale”).
Insomma, una volta circoscritta la nozione di «funzione fondamentale» a quella di «funzione ordinamentale», la linea del fronte passerebbe su questo dilemma interpretativo (vale a dire: funzione fondamentale è “funzione ordinamentale in senso lato” o “funzione fondamentale ordinamentale”?).
Invece, il dilemma interpretativo accennato è già risolto a monte se si accede alla tesi c), cioè alla più lata interpretazione del concetto di funzione fondamentale. Se questa si estende anche alle funzioni amministrativo-gestionali, è evidente che assorbe senza dubbio tutte quelle ordinamentali: la linea del fronte è spostata più in là. Ma oltre a questa conseguenza quali altre ve ne sarebbero?
La prima, come già ricordato, è la possibilità per lo Stato di allocare a favore degli Enti locali funzioni in materia di competenza regionale residuale.
Resta, tuttavia, da capire quale esigenza unitaria corrisponda al fatto che sia la legge statale, e non quella regionale, a decidere quali funzioni in materie regionali debbono spettare indefettibilmente agli Enti locali. Detto diversamente, se le funzioni fondamentali sono amministrative, la legge statale non potrebbe allocarle senza tenere conto del vincolo costituito dal principio di sussidiarietà: e quindi, non potrebbe assegnare alle province funzioni amministrative fondamentali che potrebbero essere adeguatamente svolte dai comuni (o viceversa). Ma in questo caso non si capisce perché – nelle materie di spettanza regionale – questa valutazione di sussidiarietà/adeguatezza debba essere operata dalla legge statale in luogo di quella regionale, tanto più che la sussidiarietà vincolerebbe allo stesso modo tanto il legislatore statale che quello regionale, prescrivendo la medesima soluzione allocativa.
Si può obiettare che la valutazione di sussidiarietà dovrebbe spettare – nel caso di funzioni fondamentali – alla legge statale, poiché solo questa può prescrivere soluzioni allocative uniformi su tutto il territorio nazionale: tuttavia, accedendo a questa conclusione, si snaturerebbe il principio di sussidiarietà, la cui finalità è anche quella di consentire, se non imporre, soluzioni allocative differenziate, in ossequio al canone dell’adeguatezza: questo, infatti, non deve essere astrattamente rivolto a determinare la capacità operativa degli enti dello stesso tipo, ma la capacità operativa di quell’ente nel contesto dato; e può accadere che un medesimo compito in talune regioni possa essere adempiuto solo dalle province e, invece, in altre regioni anche dai comuni, ecc.
C’è infine un ultimo argomento contro la tesi estensiva. Il principio di sussidiarietà «statico» che informa il riparto delle competenze legislative tra Stato e Regioni dovrebbe imporre l’interpretazione restrittiva. La sussidiarieta è la ratio che sta dietro al rovesciamento del criterio di distribuzione delle competenze (rispetto al Titolo V previgente) e alla luce della quale debbono interpretarsi le disposizioni che di questo ribaltamento sono espressive. Insomma, è il principio dell’equiordinazione (o del pluralismo paritario) a rendere preferibile l’interpretazione che qui si suggerisce.
In definitiva, funzioni fondamentali sono solo quelle degli organi di governo, cosicché consistono delle attività dirette a produrre quegli atti attraverso cui si esplica la funzione di governo in senso proprio. E dunque, la legge statale ex art. 117, secondo comma, lett. p) stabilisce quali sono gli organi di governo dell’Ente, quali le modalità d’elezione e, infine, quali attività debbono ricondursi alla loro funzione di direzione politica.


Parte III
Le autonomie locali nel regionalismo speciale

1. Tutte le disposizioni costituzionali che si riferiscono all’autonomia locale derivano, con la sola eccezione dell’art. 5 Cost., dalla legge costituzionale n. 3 del 2001: e perciò, in tanto possono applicarsi alle regioni ad autonomia differenziata in quanto riescano a passare attraverso la strettoia della clausola di adeguamento automatico prevista all’art. 10 della summenzionata legge costituzionale.
Stando all’interpretazione che la giurisprudenza costituzionale ha fornito dell’art. 10, è presumibile che ben poco delle novità che si sono illustrate prima possa estendersi alle regioni speciali. È noto, infatti, che il giudice costituzionale ha preferito intendere la “condizione di maggiore autonomia” come se si riferisse alla sola autonomia regionale, escludendo perciò quella degli enti locali minori[37].
Tuttavia non sarebbe corretto sostenere che il nuovo quadro costituzionale in tema d’autonomie locali non abbia alcuna applicazione nelle regioni speciali, perchè dalla giurisprudenza costituzionale si ricava invero la regola del «doppio binario»[38], che può riassumersi in questi termini:
1) le disposizioni della l. cost. 3/2001 che esprimono un maggior favore per l’autonomia regionale trovano sempre applicazione nelle regioni speciali;
2) le disposizioni della medesima legge che non esprimono un maggior favore per l’autonomia regionale si applicano alle regioni speciali soltanto in riferimento a quelle materie ulteriori di competenza legislativa che la regione mutua dal Titolo V in virtù della clausola di adeguamento automatico.
Per effetto di questa regula, all’interno delle regioni speciali convivono due regimi eterogenei: quello speciale, nelle materie corrispondenti alle competenze legislative che la regione esercita in base allo Statuto, e quello comune, nelle materie corrispondenti alle competenze legislative che la regione esercita in base all’art. 117 Cost.[39]

2. Alla luce di questo regime peculiare occorre chiedersi cosa transiti nelle regioni speciali del quadro costituzionale delle autonomie locali previsto per le regioni di diritto comune.
Nel primo binario ben poco: soltanto il principio estrapolabile, ed estrapolato, dall’art. 5 Cost. secondo cui deve essere comunque garantito un nucleo minimo non comprimibile di autonomia locale: per il resto troverà applicazione la disciplina costituzionale speciale e quindi il vecchio principio del parallelismo tra funzioni legislative e amministrative, ancora previsto negli Statuti. Nel secondo binario, invece, passerà sicuramente il principio di sussidiarietà, quale criterio di distribuzione delle funzioni amministrative, e la riserva tendenziale di potestà regolamentare locale in relazione all’organizzazione e svolgimento delle funzioni conferite (art. 117, comma sesto, Cost.)[40].
Per quanto riguarda, invece, la riserva di legge statale in ordine agli organi di governo, le funzioni fondamentali e la legislazione elettorale degli enti locali (art. 117, comma secondo, lett. p), questa non può valere come limite generale alle potestà legislative della regioni speciali (né del primo né del secondo binario), poiché queste sono titolari – come è noto – di una potestà esclusiva in materia di ordinamento degli enti locali[41].
Come si vede, il doppio binario determina una condizione paradossale: per quanto riguarda lo statuto costituzionale delle autonomie locali non abbiamo due sistemi, uno per le regioni ordinarie, l’altro per le speciali, ma invero ci sono alcune regioni, quelle speciali, all’interno delle quali convivono due regimi eterogenei, due modelli inconciliabili. È una sorta di sdoppiamento schizofrenico: i medesimi enti locali possono essere soggetti all’uno o l’altro regime, secondo l’ambito che di volta in volta viene in rilievo. E pertanto, col variare delle materie acquistano e perdono le garanzie della sussidiarietà amministrativa e della riserva di regolamento locale, con tutte le complicazioni che ne discendono sia in termini di certezza dei rapporti tra i livelli istituzionali, sia in termini di governabilità complessiva del sistema.
Occorre dunque fuoriuscire quanto prima dalla transizione. Resta da capire verso quale approdo e in che modo.

3. Per quanto riguarda l’approdo possibile, la questione è stabilire quale dovrà essere la fisionomia del sistema delle autonomie locali nelle regioni speciali: e precisamente, dovrà essere ancora un modello speciale o dovrà, invece, introiettare il modello già previsto per le regioni di diritto comune?
La risposta è articolata. Sicuramente dovranno transitare nelle regioni speciali i pilastri che reggono l’impianto del nuovo Titolo V: e cioè, la sussidiarietà amministrativa e la riserva tendenziale di regolamento locale. Non c’è nessuna ragione perché gli enti locali delle regioni speciali non debbano diventare pienamente “enti di governo”. Né tanto meno alcuna ragione per cui debba sopravvivere la supremazia regionale nelle forme del passato.
Ciò però non significa che debba senz’altro estendersi per intero il modello comune. Questo, infatti, per buona parte si regge ancora sull’idea che lo Stato sia il garante delle autonomie locali contro il centralismo regionale. È espressione di questa logica l’art. 117, comma secondo, lett. p, e cioè la competenza statale in materia di organi di governo, funzioni fondamentali e legislazione elettorale degli enti locali. È sbagliato perseverare nell’idea secondo cui l’autonomia locale si garantisce consentendo alla legge statale di comprimere l’ambito di quella regionale.
Di conseguenza, bisognerebbe non solo mantenere in capo alle regioni speciali la potestà legislativa in materia di ordinamento locale, ma occorre altresì rimuovere i limiti statutari dell’interesse nazionale, dei principi generali dell’ordinamento repubblicano e delle norme fondamentali di riforma economico-sociale e compensare il venir meno delle “garanzie statali” con il rafforzamento sensibile dei raccordi collaborativi tra regione ed enti locali, soprattutto nel procedimento di formazione della legge regionale ordinamentale.
Resta, infine, da capire in che modo si debba procedere, cioè attraverso quali atti: interrogandosi soprattutto su quanto si può fare con legge statutaria senza azionare la leva della riforma dello statuto speciale.
Ebbene, purtroppo se ne deve concludere che i margini di intervento della legge statutaria non sono granché estesi[42].
È dubbio, infatti, che tale atto possa introdurre la sussidiarietà amministrativa, sulla falsariga dell’art. 118 Cost., e la riserva (tendenziale) di regolamento locale, sul modello dell’art. 117, comma sesto. Per tre ragioni:
1) si tratta di contenuti ulteriori rispetto a quelli che, secondo quanto dispongono gli statuti speciali, sostanziano l’oggetto della legge statutaria; e anche se la Corte costituzionale sembra orientata a sottolineare le differenze anziché le somiglianze tra legge statutaria di regione speciale e statuto di regione ordinaria[43], tuttavia in questo frangente potrebbe ragionare per analogia ed estendere alle leggi statutarie quanto già asserito a proposito degli statuti ordinari: e cioè che trattasi di fonti a competenza riservata e specializzata[44].
2) È dubbio che la legge statutaria possa disciplinare le modalità di esercizio delle competenze legislative fondate sullo statuto speciale, ponendo vincoli ulteriori rispetto ai principi generali dell’ordinamento della Repubblica, alle norme fondamentali di riforma economico-sociale e all’interesse nazionale[45].
3) L’introduzione, con legge statutaria, del principio di sussidiarietà amministrativa allo scopo di vincolare il legislatore regionale futuro sarebbe vanificato dalle disposizioni dello Statuto speciale che prevedono il parallelismo: questo principio infatti consente proprio ciò che il principio di sussidiarietà vieta (e cioè permette al legislatore regionale di allocare le funzioni amministrative, senza dover sottostare al favor per i livelli di governo inferiori).
In conclusione, per ridisegnare il sistema delle autonomie locali valevole per le regioni speciali non rimane altra strada che la revisione degli statuti speciali.

Note
1) Secondo la nota espressione di M. Cammelli, Amministrazione (e interpreti) davanti al nuovo Titolo V della Costituzione, in Le Reg., 2001, 1274; Id., I raccordi tra i livelli essenziali, in Istituzioni del federalismo, 2001, 1079 ss.
2) Per un commento esteso della pronuncia rinvio a O. Chessa, La resurrezione della sovranità statale nella sentenza n. 365 del 2007, in Le Regioni, I, 2008.
3) Punto 7 del Considerato in diritto.
4) «La Repubblica è costituita dai Comuni, dalle Province, dalle Città metropolitane, dalle Regioni e dallo Stato. I Comuni, le Province, le Città metropolitane e le Regioni sono enti autonomi con propri statuti, poteri e funzioni secondo i principi fissati dalla Costituzione»
5) Come si legge nel Punto 6 del Considerato in diritto.
6) In polemica con quanto da me sostenuto (in O. Chessa, La resurrezione della sovranità statale nella sentenza n. 365 del 2007, cit.), P. Caretti, La “sovranità” regionale come illusorio succedaneo di una “specialità” perduta: in margine alla sentenza della Corte costituzionale n. 365 del 2007, in Le Regioni, I, 2008, sembra ritenere possibile la misurazione cui accenno nel testo, giungendo alla conclusione che ai diversi livelli di governo sono affidati «poteri che si distinguono radicalmente per quantità e qualità» e scorgendo «nelle competenze, innanzitutto legislative, riservate allo Stato dall’art. 117, secondo comma, (…) gran parte dei poteri che sono propri di un soggetto “sovrano”». Ribadisce perciò la piena validità del dittico sovranità/autonomia su cui s’impernia la pronuncia della Corte. È pero un punto di vista che prende sottogamba la categoria teorica della sovranità (statale). A rigore di concetto, se lo Stato è sovrano, le autonomie regionali e locali debbono intendersi come l’effetto di una sua autolimitazione, come una derivazione (sempre revocabile) dell’ordinamento statale: il che se può essere vero da un punto di vista storico, non lo è necessariamente pure da un punto di vista giuridico-costituzionale. In altri termini, il binomio sovranità/autonomia non solo postula il rapporto tra chi sta sotto e chi sta sopra, ma dice anche che chi sta sotto ci sta sempre, proprio perché è una creazione di chi sta sopra, il quale – volendo – potrebbe perfino distruggere il suo prodotto. Se si prende sul serio l’idea di sovranità, il rapporto tra questa e ciò che non è sovrano sarà sempre di gerarchia e mai di competenza: ma ciò corrisponde al nostro diritto costituzionale? È il modo in cui la nostra Costituzione disciplina i rapporti tra Stato e autonomie? Insomma, se lo Stato è sovrano, com’è che deve rispettare le competenze regionali e locali? Inoltre è teoricamente insostenibile asserire (come fa P. Caretti, op. cit.) che l’art. 117, secondo comma, fonda la sovranità statale: l’idea stessa che vi possa essere una norma attributiva di competenze sovrane suona paradossale. Per definizione – perlomeno da Hobbes in poi – il soggetto le cui competenze derivano da una norma superiore non è sovrano: sovrano, semmai, è chi istituisce le competenze e non certo chi le riceve (ma sul punto vedi quanto si affermerà infra nel testo).
Per sfuggire a queste obiezioni si può affermare che per sovranità statale ora deve intendersi una cosa nuova, diversa da ciò che s’intendeva in passato (come lo stesso P. Caretti, op. cit., propone, seguito in ciò da A. Anzon Demmig, Sovranità, processi federalistici, autonomia regionale. In margine alla sentenza n. 365 del 2007 della Corte costituzionale, in Giur. cost., 2007, secondo cui «per sovranità statale non deve intendersi un potere di comando assoluto e giuridicamente illimitato, ma una sovranità “legale” secondo cui sono attribuiti all’apparato centrale di governo il potere di supremazia e al resto una posizione di mera autonomia»). C’è da dire però che dietro questa nuova definizione stipulativa di “sovranità” non c’è ancora un’elaborazione teorica paragonabile, per impegno e complessità d’articolazione, a quella che supportava la “vecchia” definizione del concetto.
7) Contro questa ricostruzione si è obiettato che il rapporto tra competenze legislative statali e regionali è sicuramente di tipo gerarchico, nonostante la residualità-generalità della potestà legislativa regionale. In particolare si è affermato che «la sent. 303 del 2003, la c.d. chiamata in sussidiarietà, conferma il rapporto gerarchico tra Stato e autonomie e quindi la sovranità del primo»; e che «affermare l’esistenza di una competenza legislativa generale delle regioni significa non tenere conto di una copiosa giurisprudenza costituzionale che ha ampiamente dimostrato come in realtà le cose siano molto più complicate e come gli interventi dello Stato siano tutt’altro che esclusi» (P. Caretti, op. cit.). Al primo rilievo si può opporre che in dottrina esistono letture di segno diverso della sussidiarietà legislativa. Ad esempio, io stesso, in più occasioni, ho sostenuto che il principio di sussidiarietà non è manifestazione o inveramento del principio gerarchico, ma è piuttosto il nuovo modo di chiamare la logica flessibile su cui s’imperniano ormai i rapporti competenziali (O. Chessa, Sussidiarietà ed esigenze unitarie: modelli giurisprudenziali e teorici a confronto, in Le Regioni, I, 2004; e ancor prima, Id., La sussidiarietà (verticale) come «precetto di ottimizzazione» e come criterio ordinatore, in Rivista di diritto pubblico comparato ed europeo, Torino, 2002). La sussidiarietà (legislativa e amministrativa) è l’applicazione del “bilanciamento degli interessi” o, per usare categorie e terminologia differenti, del “bilanciamenti dei principi” (e del canone di “leale collaborazione”) ai rapporti di competenza tra enti territoriali. Ed è evidente che se le collisioni tra competenze interferenti sono risolte attingendo allo strumentario concettuale del bilanciamento e dei test di ragionevolezza, ciò dimostra che non ci troviamo dinanzi a fenomeni riconducibili alla tradizionale logica gerarchica.
Quanto al secondo rilievo, è indubbio che la previsione di una competenza legislativa regionale generale/residuale non esclude interventi legislativi statali. Tuttavia, ciò non dimostra certo l’inesistenza della competenza regionale generale, né è sostenibile che la prassi e la giurisprudenza costituzionale abbiano vanificato quanto disposto dall’art. 117, quarto comma. Invero, che la legge statale possa trasversalmente incidere su ambiti di formale spettanza regionale dimostra solo che le competenze sono sempre interferenti e mobili (secondo sussidiarietà, appunto). Competenza legislativa generale significa perciò che le regioni per legiferare non hanno bisogno di richiamare alcun titolo abilitativo, mentre lo Stato sì (come spiegato chiaramente dalla sent. 282/2002). Ciò però dimostra, ancora una volta, l’inadeguatezza del binomio sovranità/autonomia: sarebbe infatti curioso che mentre l’esercizio di un potere autonomo non debba giustificarsi, invece lo si esiga per l’esercizio di un potere sovrano…
8) Occorre pertanto una rivisitazione critica delle categorie concettuali che tradizionalmente vengono impiegate per definire la nozione di autonomia. Ad esempio, M. S. Giannini, Autonomia (teoria generale e diritto pubblico), in Enc. dir., IV, Milano, 1959, 356 ss., spec. 357, giustamente osservava che «l’autonomia normativa è (…), per definizione, propria di soggetti non sovrani»; ma poi aggiungeva che «nell’attuale fase storica, ordinamenti sovrani per eccellenza sono gli Stati» e che «sono essi pertanto che, con proprie leggi, attribuiscono e distribuiscono poteri di autonomia normativa a soggetti che fanno parte del proprio ordinamento». Sicché, ordinamento autonomo non può che significare “ordinamento derivato” (ma prima ancora, vedi le convergenti riflessioni di S. Romano, Autonomia (1945), in Frammenti di un dizionario giuridico, Milano, 1983 (rist.), 14 ss., spec. 16 ss.). Questa linea sembra emergere pure dalle parole di uno scrittore più recente, seppure con sensibili scostamenti di cui si dirà tra breve. Ci si riferisce ad A. Romano, Autonomia nel diritto pubblico, in Dig. dir. pubbl., II, 1987, 30 ss., spec. 33, 34, il quale asserisce che «l’autonomia, un’autonomia, qualsiasi autonomia, in quanto relazione, è delineabile solo come riconosciuta da una istituzione, da un ordinamento: ossia, in quanto da questa istituzione, da questo ordinamento sia derivata». Ora, non c’è dubbio che un ordinamento autonomo non possa essere concepito se non come un ordinamento derivato: si tratta però di intendersi su ciò di cui è la derivazione. Ebbene, le autonomie costituzionalmente previste – per definizione – non possono che essere una derivazione dell’ordinamento costituzionale; lo stesso dicasi dell’ordinamento statale (cioè, dell’ordinamento quale risulta dai poteri normativi esercitati dallo Stato-soggetto). Non per nulla, lo stesso Autore da ultimo citato aggiunge correttamente che si deve altresì parlare di «derivazione, da parte dello stesso ordinamento costituzionale, dei poteri dello Stato cosiddetto persona». E infatti, sebbene possa sembrare «culturalmente almeno incongruo considerare tale Stato-persona come un soggetto di sola autonomia, sembra che, dopo quarant’anni di esperienza della vigente Costituzione, sia culturalmente abbastanza generalmente accettato che esso, rispetto all’ordinamento costituzionale, sia un soggetto ormai solo derivato».
9) Ovviamente queste asserzioni riposano sul piano logico-giuridico (e hanno come termine di riferimento il contesto del nuovo Titolo V). Si concede, perciò, che da un punto di vita storico sono legittime impostazioni di segno diverso. Giustamente S. Bartole, Sub Art. 115, in Commentario della Costituzione, a cura di G. Branca, Bologna-Roma, 1985, 49, 52, osserva quanto sia stata «necessaria l’intermediazione della legge statale al fine di consentire alle Regioni di organizzarsi ed intraprendere la loro attività», tanto da giustificare l’asserzione secondo cui «l’ordinamento regionale nasceva da una (…)
10) E che ora, diversamente dal passato, sia legittimo distinguere tra Repubblica e Stato, lo enuncia chiaramente la nuova formulazione dell’art. 114. Tuttavia, questa distinzione pone inediti problemi teorici: negli ordinamenti federali conosciuti la differenza tra Repubblica e Stato – nei termini in cui è prospettata dal nostro art. 114 Cost. – non è pensabile: la dimensione statale coincide con quella federale; lo stato federale è l’intero, il punto d’incontro e, quindi, in un certo senso, il contenitore delle entità federate. E così, mentre in base al nostro art. 114 lo stato (centrale) e gli enti territoriali substatali sono parti distinte che si sommano per formare la Repubblica, nelle esperienze federali questa alterità tra la dimensione federale e gli enti federati non si dà, sicché lo stato federale non è altro che la loro unione.
11) Cfr. C. Esposito, Commento all’art. 1 della Costituzione, ora in Id., La Costituzione italiana. Saggi, Padova 1954; V. Crisafulli, La sovranità popolare nella Costituzione italiana (Note preliminari) (1954), ora in Id., Stato, popolo, governo. Illusioni e delusioni costituzionali, Milano 1984; G. Amato, La sovranità popolare nell’ordinamento italiano, in Riv. trim. dir. pubbl, I, 1962; C. Mortati, Commento all’art. 1 della Costituzione, in Principi fondamentali. Commentario della Costituzione, a cura di G. Branca, Bologna-Roma 1975.
12) V. Crisafulli, op. cit., 140. Non è perciò corretto affermare che secondo Crisafulli «la sovranità popolare non è in alternativa alla sovranità statale» o che «lo stesso Crisafulli osserva che l’attribuzione della sovranità al popolo non ne implica la totale sottrazione allo Stato-soggetto» (così A. Anzon Demmig, op. cit.). Quando V. Crisafulli, op. cit., 104, 105, afferma che le sue tesi «non portano, ovviamente, ad escludere il concetto della sovranità dello Stato o ad affermare che sovrano sia soltanto e necessariamente il popolo» non vuole dire che nel nostro ordinamento positivo il principio di sovranità popolare conviva con il concetto di sovranità statale: ma solo che «il principio della sovranità popolare, come principio di diritto positivo, può (…) essere accolto in determinati ordinamenti, e restare viceversa assente da altri ordinamenti; così come, dal canto suo, lo stesso principio della sovranità dello Stato (…) può valere in certi casi, e non anche in altri». Insomma, mentre sul piano dogmatico concernente il nostro diritto positivo non c’è sovranità statale ma soltanto sovranità popolare, invece sul piano teorico generale non si può escludere che un dato ordinamento accolga il primo e non il secondo.
Ancora diverso è il punto di vista di P. Caretti, op. cit., secondo cui «negli organi statali la sovranità popolare trova la sua più ampia e massima espressione». Non è chiaro però cosa ciò esattamente significhi: significa che è più espressivo di sovranità popolare l’esercizio del diritto di voto alle elezioni politiche rispetto alle elezioni regionali? Che è dunque possibile graduare l’intensità della volontà popolare secondo l’ambito in cui s’esprime, col risultato che le prestazioni rappresentative dei livelli superiori di governo sarebbero più democratiche?
13) Per uno sviluppo di queste tesi, nel quadro di un più ampio ragionamento sulle trasformazioni costituzionali che hanno interessato la nostra esperienza repubblicana, rinvio a O. Chessa, Corte costituzionale e trasformazioni della democrazia pluralistica, in Diritto Pubblico, 3, 2004, 851 ss., spec. 903 ss.
14) Immagine ampiamente usata dalla dottrina per descrivere il complesso delle relazioni tra Stato, Regioni ed Enti locali nel quadro costituzionale previgente, e recentemente ripresa da P. Carrozza, Per un diritto costituzionale delle autonomie locali, in Riv. dir. cost, 2007, 219 ss., spec. 221, 222.
15) Materia che, per effetto della riforma, avrebbe perso unitarietà e uniformità, come sottolineato da F. Merloni, Il destino dell’ordinamento degli enti locali (e del relativo testo unico) nel nuovo Titolo V della Costituzione, in Le Regioni, n. 2/3, 2002, 409.
16) Per quanto riguarda le questioni legate al tema della potestà statutaria locale e del rapporto di questa con la competenza statale ex art. 117, secondo comma, lett. p), trovo largamente condivisibili gli sviluppi e le conclusioni di S. Parisi, Il “posto” delle fonti locali nel sistema, in Le Regioni, I, 2008, 155 ss. (ripubblicato pure in O. Chessa, P. Pinna, La riforma della regione speciale: dalla Legge statutaria al nuovo Statuto speciale, Torino, Giappichelli, 2008, 95 ss.), cui pertanto rinvio.
17) Come recita l’art. 117, sesto comma, «la potestà regolamentare spetta allo Stato nelle materie di legislazione esclusiva, salva delega alle Regioni, (…) alle Regioni in ogni altra materia».
18) «I Comuni, le Province e le Città metropolitane hanno potestà regolamentare in ordine alla disciplina dell’organizzazione e dello svolgimento delle funzioni loro attribuite».
19) È l’interpretazione proposta da R. Bin, La funzione amministrativa nel nuovo Titolo V della Costituzione, in Le Regioni, 2/3, 2002, 368.
20) R. Tosi, Sui rapporti tra fonti regionali e fonti locali, in Le Regioni, 2002, 964, definisce il potere regolamentare come «potere normativo che presenta carattere di strumentalità rispetto ai poteri amministrativi di cui l’ente viene dotato».
21) Per dirlo con le parole di G. C. De Martin, Il riassetto costituzionale della potestà regolamentare ed il ruolo normativo degli enti locali, in R. Tarchi (a cura), Le competenze normative statali e regionali tra riforme della Costituzione e giurisprudenza costituzionale. Un primo bilancio, Torino, 2006, 112, la novità sarebbe ora rappresentata dal «principio della stretta connessione tra il riconoscimento e l’attribuzione di funzioni amministrative agli enti locali e il loro ruolo di regolazione».
22) Punto 7.1. del Considerato in diritto.
23) Si tratta di una novità la cui carica dirompente non è stata colta fino in fondo. Si pensi solo alle ricadute sul versante del principio di legalità: sul punto vedi quanto scrivo nella nota 28.
24) Come già ho sostenuto in O. Chessa, La sussidiarietà «verticale» come «precetto di ottimizzazione» e come criterio ordinatore, in Diritto pubblico comparato ed europeo, 2002, 1452, riconoscendo in capo alla fonte locale una competenza tendenziale ragionevolmente derogabile dal legislatore (ma solo a condizione che ragioni di adeguatezza giustifichino l’intervento normativo sussidiario del livello superiore). Per la tesi secondo cui i regolamenti locali godrebbero di una «presunzione relativa di competenza» vedi anche R. Tosi, op. cit., 967; e con esiti sostanzialmente identici, G. U. Rescigno, Note per la costruzione di un nuovo sistema delle fonti, in Dir. pubbl., 3, 2002, 794, secondo cui da una parte l’art. 117, sesto comma, riserva ai regolamenti locali «un minimo di potestà regolamentare in tema di organizzazione e di svolgimento delle funzioni», dall’altra «sia il principio di ragionevolezza, sia ancora di più il principio della sussidiarietà impongono di concludere che una legge, per limitare o conformare la potestà regolamentare di Comuni, ecc. per quanto attiene allo svolgimento delle funzioni loro conferite, deve avere buone ragioni, in assenza delle quali resta ferma la competenza di quegli enti e la legge diventa incostituzionale». Da ultimo il punto è ripreso e ulteriormente sviluppato da S. Parisi, Il “posto” delle fonti locali nel sistema, cit. 170, portando nuove ragioni a sostegno dell’esistenza di una riserva di competenza locale non già hard ma tendenziale (perché governata da sussidiarietà).
25) E per misurare la ragionevolezza della disciplina legislativa della funzione amministrativa conferita dovranno applicarsi i test di idoneità e necessità (o proporzionalità) messi a punto dalla Corte nella sentenza n. 6 del 2004 (a integrazione – o, probabilmente, a parziale correzione – del modello della sussidiarietà legislativa introdotto dalla sentenza capostipite n. 303 del 2003. Per un confronto tra i due diversi modelli di sussidiarietà legislativa facenti capo alle due pronunce, rinvio a O. Chessa, Sussidiarietà ed esigenze unitarie: modelli giurisprudenziali e modelli teorici a confronto, in Le Regioni, 4, 2004, 941 ss).
26) Come tra l’altro argomenta estesamente S. Parisi, op. cit., passim. Invece per la riproposta del modello gerarchico (nei rapporti tra legge e regolamento locale) e il conseguente rifiuto del modello della “riserva di competenza” vedi da ultimo M. Mancini, I regolamenti degli enti locali tra riserva di competenza e «preferenza» in un multilevel system of government, in Le Regioni, 1, 2008, 113 ss., spec. 135, 136, che fa leva sul «principio di legalità, in ossequio al quale l’attività amministrativa deve essere esercitata entro la cornice di una serie di regole e di principi dettati dalla legge. Ragion per cui non può esistere una riserva di regolamento intesa come ambito materiale all’interno del quale sia assolutamente precluso l’intervento della fonte legislativa». In realtà, prima di chiedersi se l’esercizio della potestà regolamentare locale debba presupporre una disciplina legislativa sostanziale occorrerebbe chiedersi se gli enti locali possono adottare regolamenti quando una legge conferisse loro una funzione amministrativa senza nulla disporre però in ordine alla relativa funzione regolamentare: è chiaro che se si risponde in senso negativo, sarebbe vanificata la previsione dell’art. 117, sesto comma, nella parte in cui dispone che l’acquisto della potestà regolamentare segue automaticamente quello della potestà amministrativa. Se invece si risponde in senso positivo (come giudico più corretto), ne discende che i regolamenti locali sfuggono alla presa del principio di legalità in senso formale: di talché diventa poco sensato chiedersi se soggiacciano ancora al principio di legalità sostanziale. Ovviamente residua l’ipotesi di una gerarchia minima tra fonte legislativa e regolamento locale, nella forma della mera “preferenza di legge”: si può infatti sostenere che per l’adozione dei regolamenti locali non è necessaria alcuna attribuzione legislativa di competenza normativa (bastando l’attribuzione di competenza amministrativa), e allo stesso tempo argomentare la necessità che il regolamento locale non sia in contrasto con la legge, ove presente. Senonché postulare la necessaria compatibilità del regolamento locale con l’intera disciplina legislativa vigente rischia di vanificare l’art. 117, sesto comma, il cui significato si ridurrebbe a ben poca cosa, risolvendosi sostanzialmente nella seguente previsione: “i Comuni e le Province possono adottare regolamenti per l’organizzazione e lo svolgimento delle funzioni loro conferite, sempre che residui uno spazio di normazione lasciato libero dalla disciplina legislativa…”.
27) Così G. Falcon, Considerazioni finali, in Le Regioni, 2002, 1039. Anche R. Tosi, op. cit., 967 e 970, afferma che il rapporto tra fonti locali e legislative è governato, ad un tempo, sia dal criterio gerarchico che dal principio di sussidiarietà.
28) Per un diversa ricostruzione del rapporto tra legge e regolamento locale, imperniata sulla distinzione “principio/dettaglio” anziché sul canone di sussidiarietà, vedi P. Caretti, Fonti statali e fonti locali dopo la riforma del titolo V della Costituzione, in Le Regioni, 5, 2002, 955; e più recentemente M. Mancini, op. cit., 139, che ipotizza una «separazione di competenze per tipo di disciplina, ispirato al modello “principio-dettaglio” già ampiamente sperimentato per le materie di competenza legislativa concorrente». C’è da dire però che tale modello non ha avuto una sperimentazione di successo, vista la difficoltà di distinguere in cosa, strutturalmente, un principio differisca da una regola dettagliata. Non per caso si è sostenuto che «non è più la distinzione tra norme di principio e norme di dettaglio – intesa in senso “tradizionale” – a regolare gli interventi statali e regionali nelle materie concorrenti» e che, per la giurisprudenza costituzionale, «la legislazione statale è di principio nel momento in cui soddisfa esigenze unitarie a prescindere dal carattere – dettagliato o meno – della disciplina». Insomma, «per quanto a livello terminologico permanga la distinzione, sembra che la Corte qualifichi come dettagliata (e dunque illegittima) la disciplina statale che non risulta idonea a soddisfare esigenze unitarie» (così M. Sias, Titoli di intervento statali e “sussidiarietà razionalizzata”. Nota a Corte Cost., n. 151 del 2005, in Le Regioni, 5, 2005). Parrebbe perciò che ora, anche in seguito alla sentenza n. 303 del 2003, sia il canone di sussidiarietà a tracciare la linea di confine tra principi fondamentali della legislazione statale e discipline regionali dettagliate, riconducendo convenzionalmente all’ambito dei primi solo ciò che riesce a giustificarsi in vista del perseguimento d’istanze unitarie e lasciando tutto il resto all’ambito delle seconde.
29) R. Tosi, op. cit., 968.
30) Ed infatti l’art. 7 TUEL definisce come oggetto della potestà regolamentare la «organizzazione e il funzionamento delle istituzioni e degli organismi di partecipazione», con ciò proiettando la competenza della fonte locale oltre il confine dei rapporti amministrativi interni.
31) Più precisamente, se la funzione statuente e regolamentare sono funzioni fondamentali di Comuni e Province ai sensi dell’art. 117, secondo comma, lett. p), per quanto riguarda la prima sarà compito del legislatore statale disciplinarne il procedimento di formazione e delimitarne l’oggetto (non essendoci al riguardo indicazioni in Costituzione). Per quanto riguarda invece la seconda, sarà compito del legislatore statale disciplinarne il procedimento di formazione ma non l’oggetto, essendo questo già individuato dall’art. 117, sesto comma («l’organizzazione e lo svolgimento delle funzioni conferite»). Sull’intera questione vedi le più estese riflessioni di S. Parisi, Il “posto delle fonti locali, cit., 156 ss.
32) A. Corpaci, Gli organi di governo e l’autonomia organizzativa degli enti locali. Il rilievo della fonte statutaria, in Le Regioni, 5, 2002, 1019.
33) S. Civitarese Matteucci, L’autonomia istituzionale e normativa degli enti locali dopo la revisione del Titolo V, parte II della Costituzione. Il caso dei controlli, in Le Regioni, 2/3, 2002, 461 ss., spec. 462, secondo cui «le funzioni fondamentali non attengono alle materie ma alle modalità di svolgimento dell’attività degli Enti locali, in altri termini alla tradizionale materia dell’ordinamento degli Enti locali».
34) G. Falcon, Funzioni amministrative ed enti locali nei nuovi artt. 118 e 117 della Costituzione, in Le Regioni, 2002, 383 ss.
35) Il rilievo è di S. Civitarese Matteucci, L’autonomia istituzionale e normativa degli enti locali dopo la revisione del Titolo V, parte II della Costituzione. Il caso dei controlli, cit., 462.
36) Ad esempio, chi adotta i regolamenti e gli statuti? Attraverso quale procedimento? In che modo può esplicarsi la funzione di controllo del Consiglio? Queste domande isolano questioni che attengono alla nozione di funzioni fondamentali e che spetta al legislatore statale risolvere.
37) Si fa riferimento soprattutto alle sentenze 236 del 2004 e 370 del 2006. Per una critica di questo orientamento giurisprudenziale rinvio a O. Chessa, L’autonomia locale nelle regioni speciali. Dalla Clausola di adeguamento automatico alle prospettive di riforma, in R. Bin, L. Coen, I nodi tecnici della revisione degli Statuti speciali, Padova, 2008, 77 ss.
38) S. Pajno, Sussidiarietà e clausola di adeguamento automatico, cit.
39) Si tratta di un esito chiaramente previsto da A. D’Atena, Le Regioni speciali ed i “loro” enti locali dopo la riforma del Titolo V, in Studi in onore di G. Ferrara, Torino, 2005, 150.
40) Può obiettarsi che in questo caso non avrebbe poi tanto senso distinguere tra i due binari, perché nel primo troverebbe comunque applicazione l’art. 7 TUEL, secondo cui «Comuni e Province adottano regolamenti nelle materie di propria competenza». Tuttavia, l’obiezione non coglierebbe nel segno, dato che dall’art. 117, sesto comma, Cost. si evince decisamente qualcosa di più rispetto alla disciplina legislativa richiamata: se ne trae, infatti, sia una riserva “rigida” di regolamento locale opponibile ai regolamenti statali e regionali, sia una riserva “tendenziale” opponibile alle fonti legislative (come argomentato da S. Parisi, op. cit.). E pertanto, nei due binari il regime della potestà regolamentare locale sarebbe comunque diverso.
41) Non è escluso però – come già osservato da A. D’Atena, op. cit., 151, e ora ripreso da S. Parisi, op. cit. – che singole norme contenute nella legge ex art. 117, comma secondo, lett. p, possano, di volta in volta, fare ingresso nelle regioni speciali ad altro titolo: cioè, come principi generali dell’ordinamento repubblicano o norme fondamentali di riforma economico-sociale.
42) Dico “purtroppo” perché la legge statutaria è interamente nella disponibilità del processo politico regionale, diversamente dallo statuto speciale che è, invece, di spettanza del Parlamento nazionale. Pertanto, essendo lo strumento principale di autoriforma, dovrebbe essere privilegiato dalla politica istituzionale regionale rispetto allo statuto speciale: le regioni speciali, cioè, dovrebbe avere come orientamento politico-istituzionale quello di fare con legge statutaria tutto ciò che è possibile, lasciando alla riforma dello statuto speciale solo ciò che è certo non possa decidersi con il primo atto.
43) Vedi sent. n. 370 del 2006.
44) Vedi le sentenze nn. 372, 378 e 379 del 2004.
45) Per quanto riguarda invece le competenze legislative ulteriori ex art. 117 Cost., il problema non si pone affatto: abbiamo visto che, in base alla regola del doppio binario, queste già soggiacciono al limite dell’art. 118 Cost. e di ogni altra disposizione del Titolo V, ivi compreso l’art. 117, comma sesto.
Per quanto riguarda l’argomento usato nel testo, cfr. con quello simile elaborato da S. Parisi, op. cit., 26, laddove osserva che la disciplina con legge statutaria del rapporto tra fonti regionali e locali ridurrebbe lo spazio della potestà legislativa in materia di ordinamento degli enti locali, poiché « si creerebbe (…) una riserva (surrettizia) rinforzata per procedimento relativamente all’oggetto “ordinamento degli enti locali” e, di conseguenza, un vincolo per il legislatore futuro (…) vincolo che il legislatore costituzionale del ’93, che ha conferito la materia ordinamento degli enti locali in capo alla potestà primaria delle regioni speciali, non poteva assolutamente prevedere».


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(Piero Atzori)

Gent.mo Omar Chessa,
avrei un problema da risolvere sulla questione dell'appello per l'abolizione delle province (pubblicato anche in questo sito).
In particolare mi interessa l'abolizione delle province sarde. Poiché nel forum di iRS, dove ho rilanciato l'idea, si è osservato che spetterebbe alla Sardegna abolire eventualmente le sue province, in virtù dell'autonomia speciale, e non alle Camere modificando la Costituzione, e siccome si è fatto riferimento all' Articolo 3 dello Statuto sardo, che recita: "In armonia con la Costituzione e i principi dell'ordinamento giuridico della Repubblica e col rispetto degli obblighi internazionali e degli interessi nazionali, nonché delle norme fondamentali delle riforme economico-sociali della Repubblica, la Regione ha potestà legislativa nelle seguenti materie:
a) ordinamento degli uffici e degli enti amministrativi della Regione e stato giuridico ed economico del personale;
b) ordinamento degli enti locali e delle relative circoscrizioni; (...)"
Le chiedo se gentilmente può darmi dei ragguagli. Grazie


(Omar Chessa)
Caro Atzori,
in termini giuridico-costituzionali la questione si riassume nel seguente quesito: può una regione speciale, in virtù della sua potestà esclusiva in materia di ordinamento locale, sopprimere le sue province?
Devo anzitutto premettere che i problemi giuridici non sono problemi matematici e quindi possono avere più risposte possibili. Per quanto riguarda il suo problema particolare, la risposta dipende da una questione preliminare: l'art. 114 della Costituzione si applica alle Regioni speciali? Tenga presente che il suddetto articolo elenca gli enti costitutivi della Repubblica, tra i quali figurano le province (insieme alle Regioni, i Comuni e le Città  metropolitane). Di conseguenza è escluso che il legislatore nazionale ordinario possa abolire le Province: occorrerà una legge costituzionale.
Non è detto però che ciò debba valere anche per il legislatore regionale sardo, perchè l'attuale formulazione dell'art. 114 Cost. è quanto risulta dalla riforma del Titolo V introdotta dalla legge costituzionale n. 3 del 2001. Ebbene, questa stessa legge fissa le proprie condizioni di applicabilità alle regioni speciali, stabilendo (all'art. 10) la regola della "maggiore
autonomia". Vale a dire: le disposizioni della legge costituzionale n. 3 del 2001 si applicano alle regioni speciali nelle parti in cui prevedono "forme di autonomia più ampie" rispetto a quelle attribuite.
Il punto, perciò, è se l'art. 114 sia una forma più ampia di autonomia: se lo è, trova applicazione nei confronti delle regioni speciali e quindi le province non si possono abolire nè con legge regionale nè con legge statutaria (semmai con lo Statuto speciale: ma è meglio non aprire questo capitolo, perchè contiene una complicazione ulteriore...). Se invece non lo è, non dovrebbe applicarsi e pertanto, limitatamente al caso sardo, le Province non sarebbero enti costituzionalmente necessari.
Sul punto la dottrina è divisa. Io, ad esempio, sostengo che l'art. 114 deve applicarsi alle regioni speciali, perchè la regola della "maggiore autonomia" deve riferirsi tanto all'autonomia regionale quanto a quella locale; e sotto questo profilo l'art. 114 rafforza non solo la posizione costituzionale dell'ente-regione ma anche quella degli enti locali subregionali (vedi principio dell'equiordinazione). Altri però la pensano diversamente e c'è da dire che purtroppo la Corte costituzionale ha dato ragione a questi ultimi, intendendo la "maggiore autonomia" come se signiificasse soltanto "maggiore autonomia regionale". Sicchè in linea di principio dovremmo coerentemente concluderne che l'art. 114 non si applica in Sardegna.
Tuttavia...
..tuttavia non mancano pronunce della Corte dove sembra che si dia per scontata l'applicazione del 114 anche nelle regioni speciali. Non solo, mi sembra inoltre evidente che il principio incorporato nel 114 sia un "principio dell'ordinamento giuridico della Repubblica" e quindi potenzialmente in grado di vincolare il legislatore regionale sardo, come si evince dall'art. 3 del nostro Statuto (che Lei stesso cita). Ci sarebbero almeno altri due argomenti
a sostegno della tesi che infine le propongo, ma per ragioni di spazio (e di tempo) mi fermo qui.
Insomma, lasciate perdere la battaglia per abolire le province: è persa in partenza, perchè mancano sia i presupposti politici sia quelli giuridico-costituzionali. Conviene piuttosto puntare sulla loro riforma, vuoi intervenendo sulla struttura della loro funzione rappresentativa vuoi introducendo forme diverse di rapporto con i Comuni.
Cordialmente


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