Il Tamburino Sardo


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1marzo

Rubrica bassa cucina

Primo marzo
(Giampiero Muroni)

Lunedì 1° marzo si svolgerà il primo sciopero degli immigrati organizzato in Italia. Dopo l'esempio di analoghe manifestazioni negli USA, quattro donne impegnate nel campo dell'integrazione, due italiane e due no, due bianche e due nere, hanno deciso di provare a dare una risposta al clima di intolleranza crescente nel nostro Paese e hanno lanciato un'idea semplice: provare a far sentire a un'intera Nazione il peso dell'assenza per un giorno del lavoro degli immigrati.

Uno sciopero di un giorno che valga a far comprendere il valore e la necessità del lavoro svolto da chi è arrivato da altri Paesi, ha un'altra cultura e magari una differente religione e che concorre comunque a far muovere l'economia e la società di un Paese che spesso li sopporta di malavoglia e che non brilla per le proprie politiche di accoglienza.

Molto probabilmente lo sciopero troverà in Sardegna modalità differenti – una popolazione di immigrati impiegata nel commercio ambulante o nella cura personale non ha la stessa capacità di azione politica di chi lavora in fabbrica – ma il senso dell'iniziativa sarà comunque lo stesso in campo nazionale: dimostrare la necessità del lavoro degli stranieri, l'irrazionalità di una politica che non favorisca la loro migliore integrazione e che coltivi le paure di chi teme la loro concorrenza.

L'iniziativa delle quattro attiviste ha il pregio dell'immediata comprensibilità, probabilmente per il fatto che nessuna di loro fa parte di un partito politico e non scontano quindi il peso delle contraddizioni e delle ambiguità con cui la politica affronta da anni il tema scottante dell'immigrazione. E sarà facilmente un'iniziativa di successo, tanto più straordinario quando si pensi che sarà il primo sciopero indetto dalla base, cui i sindacati si accoderanno.

Vedremo sit-in e cortei in molte città, manifestazioni colorate – il giallo è la tonalità cromatica scelta dagli organizzatori – e dichiarazioni improntate all'esigenza di riconoscere sacrosanti diritti di cittadinanza a uomini e donne che hanno alle spalle spesso storie di violenze mai raccontate nei nostri TG e che all'Italia chiedono in fondo solo un luogo in cui provare a far vivere la loro speranza di un futuro sereno.

Sentiremo parole condivisibili, ci riconosceremo negli ideali di fraternità e di solidarietà che saranno la cifra più evidente delle manifestazioni – il rischio terribile però è proprio questo: che siamo in grado già oggi di descrivere ciò che succederà nelle piazze d'Italia il primo marzo. E purtroppo siamo anche in grado di descrivere ciò che succederà il giorno dopo, a seguito di quelle manifestazioni: assolutamente nulla. Nulla sarà cambiato non dico nelle norme che regolano l'immigrazione – che sarebbe assurdo pretenderlo – ma neanche nella società, nella percezione degli immigrati da parte di tanti nostri connazionali che li vedono come un rischio, un disordine, un conflitto e che li sopportano a stento.

La gestione delle politiche sull'immigrazione rappresenta oggi in Italia il vero fulcro su cui si fonda il rapporto di forza tra maggioranza e opposizione, nel senso che le elezioni si vincono o si perdono fondamentalmente su quel tema; non c'è più alcun discrimine ideologico a condizionare quella quota di elettorato senza bandiere che dà la vittoria a uno o all'altro dei contendenti: non il programma economico o – men che meno – la politica estera. A dare la palma è la percentuale ondivaga di coloro che credono di più all'uno anziché all'altro schieramento in materia di immigrazione; ossia in tema di sicurezza – grazie a uno di quei micidiali corti circuiti comunicativi che hanno saldato insieme i due argomenti.

Bossi l'ha capito prima e meglio degli altri, ha messo in soffitta le tradizioni celtiche inventate di sana pianta, il dio Po e tutto l'armamentario pataccaro con cui infiammava i suoi valligiani e ha puntato dritto al ventre molle della paura del piccolo imprenditore cui non bastavano più i muretti a salvaguardagli la villetta costruita di fianco al capannone come dell'operaio spiazzato dalla concorrenza distruttiva di chi, pur di lavorare, accetta condizioni e paga che gli italiani avevano messo tra i brutti ricordi degli anni passati.

Un pezzo d'Italia che probabilmente non legge i giornali (e tanto meno i libri) ma che ha fatto la sua parte nel costruire la ricchezza di questo Paese nei decenni scorsi e che oggi non ci sta ad accettare di essere diventata periferica e fungibile nel gran gioco della globalizzazione.
Pensare che questa parte così grossa e importante degli Italiani, questa quota così consistente che si palesa nei sondaggi e che poi scompare – e che è ben superiore alle pur imponenti percentuali raccolte dalla Lega Nord alle elezioni – sia definibile come razzista è peggio che una bestialità: è un errore.

Il rischio è che in un errore del genere si continui a cadere anche in occasione delle manifestazioni del primo marzo. Il rischio è che il paradigma di tutte le iniziative di quel giorno e di quelli appresso sul tema dei diritti di cittadinanza agli stranieri si fondi sulla condivisione di valori “non negoziabili” (come si usa dire oggi) che una minoranza autodefinitasi illuminata testimonia di fronte alla platea della maggioranza di indifferenti.

Se si continuerà a credere che una politica dell'integrazione si possa fondare solo su una serie di valori morali assunti come positivi (la tolleranza, la curiosità, il senso di fratellanza, il solidarismo universalistico) e quindi da proporre alla società fino a farli divenire patrimonio comune, allora stiamo candidando l'attuale generazione di immigrati al ruolo di spettatori dell'ultimo atto di una battaglia ideologica che affonda le sue radici nel dibattito politico italiano del secolo scorso, privandoli di qualunque speranza di vedersi riconosciuti quei diritti che rivendicano.

Non sarà nella disperata battaglia per l'egemonia culturale in Italia che troveranno spazio le aspettative dei lavoratori stranieri. Se una speranza di cambiare l'orientamento generale su questi temi c'è, sta nella capacità di entrare in contatto con le paure profonde di tanta parte degli Italiani, di comprenderle e di rassicurarli.

Sembrerà paradossale, ma la chiave per costruire un dialogo nazionale sul tema dell'immigrazione sta nell'utilizzo del paradigma di solito usato per superare il conflitto con la diversità incarnata dagli immigrati stessi. Salvo che stavolta la differenza da superare non sta nel colore della pelle o nella lingua d'origine, ma nella scala di valori etici e civili.
Così come ci diciamo – da sempre – che solo avvicinandoci a chi appare tanto diverso da noi, conoscendolo, valorizzando gli aspetti comuni (l'affettività, le emozioni, gli aspetti umani più intimi) è possibile superare le paure istintive e irrazionali, così solo accettando un confronto paritetico con chi non condivide i nostri valori di base (la solidarietà con chi soffre, la curiosità per le differenze, l'atteggiamento di accoglienza verso le novità) sarà possibile costruire una politica di integrazione.

Accettiamo che una certa quota di egoismo, dentro di noi come dentro la società, sia insopprimibile; veniamoci a patti. Se la strada per far passare delle norme a favore di chi arriva in Italia a lavorarci sia quella della valorizzazione della loro utilità (in termini fiscali e contributivi), e sia pure.

E se la strada per arrivarci passa per un'informazione puntigliosa portata a chi li vede senza alcuna simpatia preconcetta, sul vantaggio economico rappresentato dai milioni di braccianti e operai che fanno funzionare l'Italia, e con l'occhio sempre attento anche alle necessarie misure a sostegno di chi ne paga le spese, allora l'occasione del primo marzo può essere il primo passo di una battaglia lunga e paziente come una vertenza sindacale.

E l'uso dello strumento dello sciopero acquisterebbe il senso che gli è proprio.

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