LIBOA, UNA STORIA VERA (O FORSE NO)

Il nome di Gabriella Palermo è legato a una vicenda che anni fa fece qualche rumore nei giornali – non solo locali. Lei era una dirigente del Comune di Olbia che, dopo aver espresso pubblicamente il proprio apprezzamento nei confronti del candidato di centrosinistra, si vide licenziata dalla rieletta amministrazione di Nizzi con motivazioni vicine allo “scarso rendimento”. Allora si parlò di vendetta politica – lei è tra l’altro sorella di un dirigente sardista –, di mobbing, dell’espulsione di una persona “scomoda”. Poi le sentenze della Magistratura chiusero la lunga vertenza.

Oggi lei ritorna, in veste di scrittrice, a raccontare una storia apparentemente simile alla propria, ambientata nella vivave cittadina costiera dal suggestivo nome di Liboa. Anche la protagonista del romanzo è una dirigente comunale (anche lei ingegnere) e anche lei, dopo una fase di brillante attivismo in una “Liboa da bere”, tutta lavori pubblici ed espansione, perde i favori dell’amato sindaco Ferretti, degli altri assessori e dei colleghi, avvolta da un gorgo freddo di ipocrisia, ostilità, colpi bassi, pugnalate alle spalle. Gli amici si allontanano, i collaboratori la evitano, i sindacalisti si distraggono: rapidamente una comunità di lavoro e di affetti la isola, spogliandola di ogni protezione, lasciandola nuda nelle mani di un nemico che non si dichiara mai tale.

Il romanzo ha come sottotitolo “una storia vera”, ma il colto riferimento a Luciano di Samosata è il primo dei tanti messaggi ironici che corrono tra libro e lettore: niente è più falso del racconto del vero ed è meglio cercare la verità nel romanzo più che guardarla dal buco della serratura della storia.

Così è certamente significativo che tutti i personaggi del libro, tranne la protagonista che è citata solo come “Claudia”, portino i cognomi più illustri del Risorgimento italiano, discendenti indegni di un passato che ha sacrificato la vita agli ideali. E così è suggestiva l’atmosfera brumosa che pervade i dialoghi dei personaggi, i fili narrativi lanciati e più ripresi, come se l’autrice tentennasse nel dare i significati alle cose, ne fosse incerta, e tale lasciasse chi la legge.

Il segno del libro sta proprio in quello: nel costringere il lettore nella scomoda posizione di chi insegue una verità che a ogni pagina pare corrompersi sempre più. La chiave di volta sfugge o non è mai esistita: la livida ostilità che la protagonista sconta sulla propria pelle non ha motivazioni razionali o comprensibili, la disonestà dei politici è meschina più che rapace, l’ambizione dei colleghi è dedita allo sgambetto più che allo scavalco.

Qual è il peccato originale di Claudia? Cosa ha visto, o detto, o fatto che le ha causato l’esclusione dal Paradiso liboense? La risposta pare essere: niente di importante. Lei non era più funzionale allo scopo e tanto basta, nella sfortunata Liboa, a liberarsene.

E così la verità del libro non sta nei maneggi o nelle cose raccontate, nelle metafore di altre verità, di altre Claudie e altre Liboe, ma nel rapporto sempre uguale tra individuo e potere, nella storia delle storie in cui ciascuno è solo sotto gli strali di un cielo indifferente e spietato.

Sono molte le chiavi di lettura possibili e molte sono state quelle offerte dalle domande del pubblico alla presentazione del libro a Sassari avvenuta l’11 giugno, presso la libreria Max, in via Asproni. C’è stato chi ha visto nella solitaria lotta della protagonista un percorso di redenzione personale, chi vi ha invece intuito il riflesso della storica battaglia femminile per l’emancipazione. Insomma Claudia come paladina dell’onestà sconfitta o come simbolo di un’identità irriducibile – tutte verità possibili, si potrebbe dire.

Nell’eterna contrapposizione del singolo al potere costituito ogni virtù (onestà, intelligenza, competenza) è un peccato o può diventarlo: chi può dire quale sia stato quello che ha indispettito i potenti?

Liboa è quindi un luogo tra i luoghi, un Comune come tanti in cui un ceto politico abbruttito dal cinismo si dedica alla propria perpetuazione alleandosi con una burocrazia altrettanto degradata. A guardarsi intorno – senza arrivare alla Gallura – se ne trovano di posti simili. E in ciascuno di quelli, probabilmente, c’è una Claudia schiacciata da ciò che non conosce, nel silenzio dei media “cani da guardia del potere”, pigramente accucciati ai piedi del sindaco Ferretti di turno.

È bello che sia stata una casa editrice siciliana, la Doramarkus, a darci quest’immagine così probabile della Sardegna; nella terra delle intimidazioni al tritolo contro gli amministratori evidentemente c’è spazio anche per una voce che oltre alla lezione di Montale si è formata anche a quella di Sciascia.



Giampiero Muroni

(per gentile concessione di Sardegna Ventirighe)

vai alla Home Page