Il sogno del Generale: bonificare la Sardegna

 

L’opera compiuta da Garibaldi a Caprera potrebbe essere definita un “piccolo miracolo”. Il suo temperamento gli imponeva di rendere vivo tutto ciò che era inerte, proprio come quell’isoletta sassosa e, in un certo senso, lontana dalla civiltà. Non sorprende quindi la sua intenzione di promuovere, nel 1870, un progetto finalizzato alla bonifica e alla creazione di colonie agricole in Sardegna, a coronamento di un sogno che univa la sua indole di agricoltore alla riconoscenza verso l’isola che lo aveva accolto nei momenti più difficili della sua vita. Vale la pena soffermarsi ad esaminarne gli aspetti tecnici.

L’esecuzione del progetto sarebbe stata affidata ad una società che avrebbe avuto la durata di trent’anni.

Esso era diviso in due parti. Nella prima il Generale indicava in maniera dettagliata le opere che la società di colonizzazione avrebbe dovuto compiere: rimuovere gli ostacoli che impedivano il decorso dei fiumi e dei torrenti, impedire il loro straripamento con argini adeguati e prosciugare le paludi attraverso scoli o sistemi artificiali.

La società avrebbe poi fondato 20 colonie agricole di 5.000 ettari ciascuna, destinati per metà alla pastorizia e per metà all’agricoltura. Ogni colonia sarebbe stata divisa in dieci poderi.

Erano previste, inoltre, la costruzione di edifici agricoli e case, la fornitura di macchinari, bestiame e sistemi d’irrigazione, la creazione di “opifici manifatturieri”, la fondazione di un “Istituto pratico di Agricoltura” e, infine, l’esportazione nel continente dei prodotti dell’isola.

Nella seconda parte era descritto il sistema per l’impianto e lo sviluppo delle colonie, articolato in quattro anni per ciascuna di esse. Il primo anno sarebbe stato dedicato agli studi sul luogo, finalizzati alla formazione di “grandi circondari di scolo” e all’organizzazione delle colonie dal punto di vista agricolo; negli anni successivi, la prima colonia avrebbe raggiunto il pieno esercizio con la costruzione delle fabbriche, la coltivazione dei terreni e la realizzazione dei prodotti destinati al commercio.

Era necessario un capitale di trenta milioni, da erogare gradualmente e in base allo stato d’avanzamento dei lavori. Tuttavia, per offrire garanzie al capitale e rendere quindi più agevole l’avvio dell’impresa, Garibaldi chiedeva al Governo la concessione gratuita della metà dei terreni ex-ademprivili della Sardegna restituiti dalla Società delle Ferrovie Sarde, circa centomila ettari, in massima parte improduttivi, ma passibili di diventare una fonte considerevole di ricchezza nazionale.

La concessione dei terreni imponeva obblighi precisi: costituire, entro un tempo stabilito, la Società Nazionale di Bonificazione e Colonizzazione della Sardegna; conferirle la piena proprietà dei terreni ademprivili e trasferire ad essa tutti i diritti e gli obblighi che sarebbero derivati dalla concessione; presentare all’approvazione governativa lo statuto sociale, che era già stato predisposto, insieme al progetto tecnico della Società; giungere ad una regolare convenzione col governo, da sottoporre all’approvazione del Parlamento, nella quale sarebbero confluiti gli obblighi indicati e sarebbero state decise le modalità per il loro adempimento.

Il Generale chiedeva inoltre il diritto di espropriare con la forza i terreni necessari alla rete dei fiumi e alla costruzione delle strade, quelli delle paludi, anche lontani dalle colonie, qualora avessero danneggiato le colonie stesse; l’esenzione dalle tasse, almeno per i primi sei anni, per macchine, attrezzi, strumenti e materiali occorrenti provenienti dall’estero; la facoltà di impiegare nei lavori di impianto i militari delle compagnie di disciplina sotto l’osservanza di speciali norme e dietro un compenso giornaliero stabilito dal Ministero della Guerra.

La Società si sarebbe impegnata a pagare un canone annuo di centomila lire per i primi dieci anni, di centocinquantamila per i dieci anni successivi e duecentomila per il terzo decennio; a corrispondere al governo il 10% sui guadagni che avrebbe ricavato dalla vendita dei terreni bonificati e coltivati, vendita alla quale avrebbe dovuto procedere a termine della sua durata, tale percentuale avrebbe compensato ampiamente il regio erario della concessione dei terreni; a cedere in proprietà a ciascuna famiglia che facesse parte di una colonia e che vi avesse fatto una dimora non interrotta di almeno venti anni, una casa e cinque ettari di terreno; a fornire al governo, entro l’ultimo anno sociale, un regolare catasto di tutti i terreni da esso ceduti alla società; a lasciare all’Amministrazione Militare la preferenza per la scelta e l’acquisto dei prodotti delle razze equine.

Si aggiungeva l'obbligo di eseguire, a garanzia degli impegni assunti, un deposito di 30.000 lire di rendita dello Stato, da effettuarsi entro il termine che sarebbe stato stabilito al momento della costituzione della società e che sarebbe stato restituito alla fine dei primi dieci anni, quando cioè la prima e la seconda colonia sarebbero entrate nel loro pieno esercizio.


Garibaldi aveva allegato al progetto anche una proposta di Convenzione, in 18 articoli, da stipularsi con il governo. Questo si sarebbe impegnato a cedere a titolo gratuito i 101.432 ettari di terreni ademprivili richiesti, mentre il concessionario avrebbe avuto l’obbligo di costituire, entro sei mesi dall’approvazione della convenzione, una società per la bonifica, la colonizzazione e la coltivazione dei terreni ceduti. Il governo avrebbe avuto il diritto di recedere nel caso in cui, entro i termini, non fossero stati raccolti i capitali occorrenti e costituita la società.

La consegna dei terreni sarebbe avvenuta a cadenza annuale, nell’ordine di un lotto di 5.000 ettari ogni anno per i primi 21 anni. La società assumeva l’obbligo di garantire la perfetta conservazione dei boschi d’alto fusto, riservandosi però il diritto di legnatico per i bisogni delle colonie e il diritto di prelazione sulle concessioni future di miniere.

Il 10% del ricavato dalla vendita dei terreni doveva essere versato all’erario, ma da questa percentuale erano escluse le fabbriche e gli stabilimenti.

Nella Convenzione si sanciva l’obbligo di “un regolare ed esatto Catasto” di tutti i terreni bonificati e colonizzati entro il 21° anno, mentre la società era obbligata al versamento di un canone annuo di una lira per ciascun ettaro, a cominciare dall’anno successivo a quello della consegna di ciascun lotto.

Era stabilito l’impegno ad acquistare o a prendere in affitto la Tanca Regia di Paulilatino per istituirvi una Scuola Agraria teorico-pratica e di Veterinaria e insediarvi vivai e piantonai di varie specie arboree. Il conte Aventi, al tempo della sua escursione agraria in Sardegna, aveva visitato il sito e ne aveva intuito le potenzialità, malgrado lo stato di abbandono generale. La Tanca era stata data in affitto ad un pastore, legato a un contratto triennale che sarebbe scaduto nel 1872.

Inutile sottolineare l’importanza di una scuola agraria in Sardegna, anche perché l’esperimento era stato tentato più volte senza successo (un esempio è quello del progetto di una scuola agraria a San Bartolomeo, il penitenziario di Cagliari).

Il 1870 fu anche l’anno del Primo Congresso generale degli Agricoltori italiani, tenutosi a Pistoia, presieduto dal Castagnola. I congressisti dibatterono sulle difficili condizioni della Sardegna e votarono anche un ordine del giorno a favore dell’iniziativa di Garibaldi. In esso “considerando le misere condizioni igieniche ed agricole” in cui versava la Sardegna e “l’importanza di ritornare questo paese ubertosissimo all’antica sua floridezza” facevano “calorose istanze al governo” perché facilitasse e sollecitasse con tutti i mezzi in suo potere l’attuazione pratica del progetto.

Sui 100.000 ettari richiesti sarebbero stati realizzati duecento poderi destinati alla coltivazione e alla pastorizia, per l’estensione di 500 ettari ciascuno. Su ogni podere si sarebbero stanziate numerose famiglie e ogni colonia, costituita da dieci poderi, avrebbe formato un villaggio!

Alla fine, venti nuovi villaggi avrebbero dato un corposo contributo al ripopolamento dell’isola, divenendo nuclei attivi di produzione. Se l’iniziativa fosse andata a buon fine, avrebbe rappresentato anche un lenitivo non indifferente al fenomeno dell’emigrazione, a quei tempi molto diffusa, che non sempre si era rivelata essere la soluzione ottimale ai problemi economici dei sardi. Molti di loro non riuscivano ad integrarsi nelle nuove realtà economiche e sociali e finivano per condurre comunque una vita di miseria, per giunta lontano da casa.

Ragioni di opportunità politica e preoccupazioni per la sicurezza nazionale (si temeva che Garibaldi avesse intenzione di fomentare rivolte in Sardegna) fecero naufragare il progetto. In esso tuttavia possiamo ancora oggi trovare la cifra del vero e proprio amore che il Generale nutrì per l’isola, individuando e rendendo praticabili soluzioni semplici e immediate ai mali che la affliggevano e che lui riteneva non più sopportabili.


Paolo Lisca

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