Nella campagna brulla e povera di case, è in corso una battaglia, ma non pare nemmeno. Se non fosse per l’odore acre della polvere che sollevano i cavalli, lanciati in brevi galoppi nei pendii. Se non fosse per il crepitare degli spari, seguiti da corti echi alle spalle. Riconosciamo i nemici dalle uniformi che indossano, ma non sappiamo la ragione per cui ci sparano. E i nostri, poi, parlano una lingua altrettanto straniera. Non capiamo perché siamo in guerra, ma intuiamo che vivere o morire non è tutto, che c’è dell’altro in gioco.


C’è una casa assediata in cima al colle, ci sono fucilieri attorno, si sentono urla secche e spari. Nella foschia della mattina c’è un ragazzo che corre giù, un giovane tamburino. Sparano contro di lui, che salta tra le rocce e i cespugli, che cade e si rialza. Ci sono nuvole basse e nitriti di cavalli e uomini che sparano al riparo di alberi.

C’è anche una guarnigione lontana oltre il fiume, che può venire in soccorso. C’è un fronte di battaglia da qualche parte, e più in là ci sono comandi dove generali e politici decidono dove mandare i soldati a morire. Più lontano ancora ci sono le capitali, dove stanno i re e le loro corti, che si informano della guerra ogni mattina.


Chi siamo noi? Bene, noi siamo quello che corre.